Solennità di Santa Rosalia – Chiusura Anno Giubilare

Santuario di Montepellegrino
04-09-2024

Eucaristia di chiusura dell’Anno Giubilare Rosaliano

Omelia

In questo Giubileo Rosaliano, nel IV Centenario del ritrovamento delle Reliquie della Santa eremita qui a Montepellegrino, tra le tante, ho ricevuto una lettera dove colui che scrive, ritenendo che Santa Rosalia fosse una Martire, riporta un testo del Card. Giacomo Biffi che fu arcivescovo di Bologna: «Il martirio è il segno più alto della carità verso Dio e verso gli uomini, la partecipazione più piena all’opera di salvezza operata da Gesù: “adímpleo ea quae desunt passiónum Christi [in carne mea pro córpore eius]” (Col 1,24), è l’espressione autentica della Fede della comunità ecclesiale; è la proclamazione più alta del Credo cristiano dinanzi ai non credenti di tutto il mondo; è la presenza della voce dello Spirito Santo».

Una svista che mi ha offerto lo spunto per questa omelia nell’Eucaristia che vede ritornare su questo Monte il Corpo di Rosalia, anacoreta, eremita che ha abitato nella fenditura di questa roccia del Promontorio che domina la città di Palermo e la sua costa e che Johann Wolfgang von Goethe riteneva essere «il più bello del mondo». D’altra parte, nel Prefazio della Solennità della Vergine Eremita si afferma: «Insieme a Cristo gioiosa offrì se stessa per giungere alla Cena dell’Agnello quale sposa ornata per il suo Sposo». E tra i titoli della Litania di S. Rosalia è compreso anche quello di «Martire serafica del divino amore».

Ma in fondo Colei che dalla Quisquina è arrivata fin qui per vivere in solitudine «nelle fenditure della roccia, nei nascondigli dei dirupi» (Ct 2,13) non lo ha fatto per amore del Signore – «amore Domini mei Iesu Christi», si legge nell’iscrizione di quel primo eremo – poiché, come canta il Salmo 62, «il tuo amore vale più della vita»? La sua – quella di Rosalia De’ Sinibaldi non è stata una fuga egoistica e sterile dalla vita, dagli altri, dalle responsabilità umane, dalla città, in dispregio delle cose terrene. Ma la conoscenza di un amore più grande e irresistibile.

Ammiriamola nelle parole di S. Paolo ai Filippesi (3,8-10) ascoltate come seconda lettura biblica: «Per lui [Cristo Gesù, mio Signore] ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura (σκύβαλα, sterco), per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui, […] perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti». Quello di Rosalia è un atto dettato da una lucida scelta d’amore per Dio («L’amato mio!»: Ct 2,8) che comporta la libertà di rinnegare sé stessi, di decentrarsi per predisporsi all’offerta totale e definitiva di sé, di tutto il proprio essere, del proprio corpo – «in carne mea» (Col 1,24) –, cioè della propria vita, in tutte le sue dimensioni: fisica, spirituale, intellettiva, volitiva, emotiva.

Se è vero dunque che il martirio è «il segno più alto della carità verso Dio e verso gli uomini», allora anche quello di Rosalia è martirio, martirio anacoretico: dono di sé a Dio nella solitudine dell’eremo. Amore radicale per Dio e per gli uomini: «Se il regno di Dio è veramente nel cuore, pensa Simeone il Nuovo Teologo (+1022), noi dobbiamo averne coscienza. Chi non ha visto Dio non può avere né l’amore, né la speranza, neppure la fede» (T. Spidlìk, La preghiera secondo la tradizione dell’Oriente cristiano).

Rosalia martire: testimone di una vita totalmente donata, di un “corpo offerto” anche dopo secoli dalla sua morte, corpo diventato dal 1624 antidoto ed energia di vita sullo strapotere mortifero delle pesti di ieri e di oggi. Martire: cioè testimone di un amore più grande e di una cura instancabile. Per Dio, per gli altri.

Il “martirio anacoretico” di Rosalia è stato il fulcro decisivo di questo Anno Giubilare.  È Colei che ha fatto risuonare nella nostra comunità ecclesiale – che si rivede nella parabola evangelica odierna – il grido levatosi nel cuore della notte: «Ecco lo sposo! Andategli incontro» (Mt 25,6).

Rosalia ci testimonia il primato e la custodia di Dio nella nostra vita: la cosa assolutamente intelligente da fare, la “scorta” ultimamente essenziale che bisogna sempre avere con sé come le vergini sagge che «invece, insieme alle lampade, presero anche dell’olio in piccoli vasi» (Mt 25,4). La scelta della “parte migliore”, come Maria di Betania seduta ai piedi del Maestro: «Una sola è la cosa di cui c’è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta» (Lc 10,42). L’«essere potentemente rafforzati dal suo Spirito nell’uomo interiore (ἔσω ἄνθρωπον)», come ricorda la Lettera agli Efesini (3,16).

Rosalia, Martire dell’amore, aiuta a ridestare il fuoco dell’amore nei nostri cuori assopiti, pietrificati. Ritrovare, aprirsi a Dio, fondamento di vera speranza per una rinascita e una trasfigurazione della nostra vita personale, ecclesiale e civile.

La nostra Santuzza ci ha accompagnati in questo cammino Giubilare. Ci ha fatto ritrovare l’energia – la fede in Gesù Cristo (la relazione d’amore con il Crocifisso Risorto) – che ha segnato e determinato tutta la sua vita, che ha dato un’altra vitalità al suo corpo anche oltre la sua morte. S. Rosalia ci ha riconsegnato uno ‘sguardo nuovo’ per un lucido discernimento sulle realtà che viviamo giù, ai piedi di questa montagna, in Città, nelle nostre case, nei nostri quartieri, nelle nostre comunità cristiane, nei luoghi del nostro impegno quotidiano, del nostro itinerario terreno di pellegrini verso la patria celeste, verso «un nuovo cielo e una nuova terra» (Ap 2,11).

Un Anno Giubilare è sempre tempo opportuno di trasformazione, di trasfigurazione della nostra vita. Cosa ci lascia come eredità il Giubileo Rosaliano, il “martirio” di Rosalia?

Prendersi cura di sé. Oggi viviamo nell’epoca dell’esasperazione della cura “dell’uomo esteriore” e abbiamo dimenticato la cura dell’«uomo nascosto nel cuore» (1Pt 3,14). Occorre amarsi non in forma narcisistica bensì prendendosi cura di sé stessi e farlo prendendosi cura di Dio, coltivando e alimentando la Sua presenza in noi, per amarlo «con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze» (Dt 6,5). Per appartenere solo a lui, liberi dai falsi dèi che oggi ci schiavizzano. Se siamo idolatri non siamo cristiani!

Amare il prossimo e prendersi cura degli altri, amare il Creato, sentirne il gemito e prendersi cura di tutte le creature; amare la Casa comune che ospita l’unica famiglia umana e prendersene cura perché cresca come giardino fecondo e come casa fraterna che cresce nella pace.

Noi tutti conosciamo le ferite delle nostre Città e in esse delle nostre case, come anche quelle del Pianeta, della Casa comune.

Nella Città troppe sofferenze, troppe morti, le più assurde, come è assurda l’eliminazione di uomini giusti per mano mafiosa o per violenza domestica. Per uscire dalla noia oggi si uccide o si appicca il fuoco, per emanciparsi si alza la mano contro quelli della stessa casa. Le vite dei nostri figli illuse, piegate e spezzate dalle nuove droghe; la diffusione di relazioni violente e aggressive tra le nuove generazioni, specialmente nei luoghi di ritrovo, di linguaggi avvelenati dalla menzogna e dall’odio. Sopravanza una cultura del sopruso e della morte.

La Città, deturpata dalla perdita del senso civico, è incapace di trovare soluzioni e di far fronte all’emergenza rifiuti acuita a motivo di nefasti interessi speculativi e di equilibri politici. Tormentata da vecchie e nuove povertà, per il venir meno delle condizioni essenziali di una vita dignitosa (una terra, una casa, un lavoro), produce “scarti umani”, specie nelle periferie urbane ed esistenziali.

Conosciamo la malattia mortale della Casa comune-Terra. Fenomeni atmosferici devastanti causati dal cambiamento climatico provocato dallo sfruttamento indiscriminato delle risorse e dalla mancanza di cura ecologica. Carestie e pandemie, tempeste di calore, siccità, alluvioni, eventi estremi che si moltiplicano. Anche la Creazione è sfigurata e attende la propria trasfigurazione (cfr Rm 8,19-22).

Il Pianeta è sfigurato anche dai conflitti armati. Dalle assurde guerre che deturpano il volto dell’umanità, seminano lacerazioni, distruzione e morte, annientano infrastrutture, radono al suolo ospedali e scuole, il patrimonio culturale, artistico e religioso. Conflitti che provocano nuovi esodi e migrazioni. Il Mediterraneo si è trasformato in un grande e anonimo cimitero.

Rosalia in questo Anno Giubilare ci ha parlato e ci ha chiesto di cambiare sguardo, di vegliare su di noi stessi, di essere intelligenti, di avere la sapienza del cuore e una fede cristiforme “che opera per mezzo della carità” (Gal 5,6).

Discepola del Signore, pietra viva della Chiesa, donna di silenzio interiore, di ascolto, di preghiera e di carità, ci ha equipaggiati di conseguenza per riconoscere e camminare sulle vie del bene: essa – la via del Bene – presuppone l’inversione di rotta e il cambiamento degli stili di vita, l’abbandono dell’individualismo egoista e predatorio, dell’idolatria del denaro e del potere, e chiede la ricerca responsabile del primato del bene comune, del bene di tutti, a partire dai più poveri, dai più fragili.

Rosalia ci invita ad essere custodi dei nostri fratelli e sorelle in umanità e custodi delle ‘con-creature’ con le quali ‘con-viviamo’. Il corpo di Rosalia in mezzo a noi ci provoca ad essere custodi di fraternità, custodi della Città e della Terra. Animatori della cultura della vita.

A voi giovani per primi Rosalia si rivolge. Siate come lei! Liberi nel Signore. Costruttori di futuro!