Omelia
Incontrando le comunità parrocchiali, o lungo le strade dei quartieri della città, entrando nelle case, spesso mi sento dire: “Padre, ma cosa sta succedendo in questo nostro mondo? Non c’è più cuore, non c’è più amore!”. La percezione diffusa tra la gente è che non c’è più il senso della vita comunitaria, tutti urlano la loro indifferenza, strepitano il loro esclusivo interesse, sguaiati e sospettosi, sono tutti uno contro l’altro. E cresce un incontenibile senso di paura e di incertezza che semina depressione e disperazione. Un senso di deriva che risucchia e spegne la speranza.
Papa Francesco, nella sua ultima enciclica Dilexit nos (Ci ha amati, 24 Ottobre 2024), ha voluto soffermarsi sul sull’amore umano e divino del Cuore di Gesù Cristo e facendo riferimento a Maria dice che «guardava con il cuore. Ella sapeva dialogare con le esperienze custodite meditandole nel suo cuore […] la migliore espressione di ciò che pensa un cuore sono i due passi di San Luca che ci dicono che Maria “custodiva (synetérei) tutte queste cose, meditandole (symbállousa) nel suo cuore” (Lc 2,19; cfr 2,51). Il verbo symballein (da cui “simbolo”) significa ponderare, riunire due cose nella mente ed esaminare sé stessi, riflettere, dialogare con sé stessi. In Lc 2,51 dietérei significa “conservava con cura”, e ciò che lei custodiva non era solo “la scena” che vedeva, ma anche ciò che non capiva ancora e tuttavia rimaneva presente e vivo nell’attesa di mettere tutto insieme nel cuore» (n. 19).
Beati i cuori che rimangono puri, veri, scrigno di discernimento e di verità, sacrario dell’incontro con sé stessi e con Dio, sorgente dell’amore per Dio e per i fratelli. Sul cuore il Papa continua: «Tutto è unificato nel cuore, che può essere la sede dell’amore con tutte le sue componenti spirituali, psichiche e anche fisiche. In definitiva, se in esso regna l’amore, la persona raggiunge la propria identità in modo pieno e luminoso, perché ogni essere umano è stato creato anzitutto per l’amore, è fatto nelle sue fibre più profonde per amare ed essere amato» (Dilexit nos, 21).
Termini in disuso – cuore, amore, speranza, vita – da quando sopravanza la cultura dell’uomo senza vocazione, che pianifica, rendendoli ordinari e razionali, invece termini come profitto, conquista, potere, e che ci sta abituando alla violenza di strada, ai massacri, alle invasioni, ai disastri ambientali, alle guerre, e addirittura alla guerra totale ed atomica. Sopravanza la prosa dell’odio e della morte e si spegne la poesia della vita e dell’amore. Ma «Nell’era dell’intelligenza artificiale, non possiamo dimenticare che per salvare l’umano sono necessari la poesia e l’amore» (Dilexit nos, 20).
Costruiamo rovine se facciamo poggiare la piattaforma sociale sull’algoritmo dell’autoreferenzialità, del narcisismo, dell’individualismo, dell’indifferenza, del profitto sfrenato e dell’imperialismo scientista. Papa Francesco chiama tutto questo «anti-cuore»: «L’anti-cuore è una società sempre più dominata dal narcisismo e dall’autoreferenzialità. Alla fine si arriva alla “perdita del desiderio”, perché l’altro scompare dall’orizzonte e ci si chiude nel proprio io, senza capacità di relazioni sane. Di conseguenza, diventiamo incapaci di accogliere Dio» (Dilexit nos, 17). Lo vorrei dire con le parole della Genesi: ci nascondiamo a noi stessi e smettiamo di passeggiare nel giardino della vita con Dio: “Poi udirono il Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno e l’uomo con sua moglie si nascosero dal Signore Dio, in mezzo agli alberi del giardino” (Gn 3,8).
Gli eventi che stanno stravolgendo la convivenza umana nel mondo, la criticità della società occidentale e la fragilità stessa della Chiesa, provocano noi tutti a riconsiderare quella sapiente domanda iniziale contenuta nel libro della Genesi: «Il Signore Dio lo chiamò e gli disse: “Adamo, dove sei?”» (Gn 3,9) e ci chiedono di riprendere e di continuare il dialogo con Dio facendoci raggiungere dalla sua Parola, come Maria a Nazaret. Gli uomini e le donne siamo fatti per parlare con Dio, per «essere di fronte a lui» (Ef 1,4), per stargli accanto da figli e da fratelli. Non possiamo continuare a nasconderci da lui. Dio è tutto ciò di cui necessita realmente l’uomo, e forse anche per questo stiamo smarrendo il senso di appartenenza ad una comunità, l’essere comunità. In un’intervista dice Joaquin Phoenix: «Ti sei mai accorto come è diventato là fuori? Nessuno più prova a mettersi nei panni dell’altro».
Così sacrifichiamo la speranza sull’altare della disperazione e costruiamo un tempio alla paura e al terrore. Non ci rimane che assistere impotenti e rassegnati alla crescita esponenziale – dell’inimicizia, come la chiama il libro della Genesi – della violenza nelle tre case che abitiamo: la dimora domestica, che ci rende famiglia, la Casa-Città che ci rende concittadini, la Casa-pianeta-Terra, che ci ospita come membri dell’unica famiglia umana. In quest’ultima Casa i confini li abbiamo tracciati e innalzati noi uomini e non Dio. Egli infatti a tutti gli uomini e le donne di ogni tempo ha donato un giardino fecondo con al centro l’albero della vita, da abitare come fratelli e sorelle, nella pace e nella cura reciproca. E a farne le spese nelle tre case sono sempre i più piccoli e i più fragili: i piccoli, le donne, gli ammalati, gli anziani, i poveri, i senza casa, i senza voce, i profughi, gli scarti di questo mondo tecnologizzato, iperconnesso ma scollegato dal cuore, senza amore, infartuato nel cuore. Si spegne, infatti, l’«amore di cui quel cuore è capace, perché “l’amore è il fattore più intimo della realtà”» (Dilexit nos, 11).
Maria donna che ha posto la sua esistenza «sotto il “dominio politico” del cuore». È ciò che Papa Francesco indica come compito urgente: «Abbiamo bisogno – come ci ricorda il Santo Padre – che tutte le azioni siano poste sotto il “dominio politico” del cuore, che l’aggressività e i desideri ossessivi trovino pace nel bene maggiore che il cuore offre loro e nella forza che ha contro i mali; che anche l’intelligenza e la volontà si mettano al suo servizio» (Dilexit nos, 13).
Maria, Vergine Immacolata, Madre di Dio e Madre nostra, «La madre di Gesù, come in cielo, […] così sulla terra brilla ora innanzi al peregrinante popolo di Dio quale segno di sicura speranza e di consolazione, fino a quando non verrà il giorno del Signore (cfr. 2 Pt 3,10)» (Lumen gentium, n. 68). Per questo con papa Francesco noi sappiamo certi che anche in questo complesso tempo «la speranza non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5). E la Madre di Dio ne «è la più alta testimone. In lei vediamo come la speranza non sia fatuo ottimismo, ma dono di grazia nel realismo della vita. […] ai piedi della croce, mentre vedeva Gesù innocente soffrire e morire, pur attraversata da un dolore straziante, ripeteva il suo “sì”, senza perdere la speranza e la fiducia nel Signore. […] e nel travaglio di quel dolore offerto per amore diventava Madre nostra, Madre della speranza. Non è un caso che la pietà popolare continui a invocare la Vergine Santa come Stella maris, un titolo espressivo della speranza certa che nelle burrascose vicende della vita la Madre di Dio viene in nostro aiuto, ci sorregge e ci invita ad avere fiducia e a continuare a sperare» (Spes non confundit, Bolla di indizione del Giubileo Ordinario dell’Anno 2025). Anche oggi la Chiesa che in è in Palermo unisce il suo sì al sì Maria, Madre della speranza.