Messa nella cena del Signore

Cattedrale di Palermo
28-03-2024

TRIDUO PASQUALE

Giovedì della Settimana Santa

 Nella Cena del Signore

28 marzo 2024

Omelia

Il Triduo pasquale che inizia con questa Eucaristia Nella Cena del Signore, ci chiede di essere discepoli sino alla fine, e ci ri-colloca alla sostanza vitale di un amore più grande, quello che Gesù ci ha donato nell’eccesso della follia d’amore di Dio per noi uomini: «Sta scritto infatti: Distruggerò la sapienza dei sapienti e annullerò l’intelligenza degli intelligenti. […] Noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio» (1Cor 1,19. 23-24).

Solo un amore spinto fino a tanto salva, vince la morte. Soltanto per questo amore possiamo essere cristiani, seguaci di Gesù. Questo è il dono della fede: vivere un amore più grande, come quello che continua ad usarci Gesù attraverso il mistero della sua Pasqua che è la fonte della nostra pasqua, della nostra rinascita battesimale che attiva in noi il dinamismo cristico dell’amore, del dono di sé per altri.

«Una cristianità – esclamava don Primo Mazzolari – che s’incanta dietro memorie e che ripete, senza spasimo, gesti e parole divine, e a cui l’alleluia è soltanto un rito e non ha trasfigurante irradiazione della fede e della gioia nella vita che vince il male e la morte dell’uomo, come può comunicare i segni della Pasqua?» (La Pasqua, Ed. La Locusta, Vicenza 1970, 105-109).

Con il segno della lavanda dei piedi deflagra l’ora dell’amore più grande. «Gesù, sapendo che era venuta la sua ora (hōra)… li amò fino alla fine (tèlos)» (Gv 13,1). Il termine hōra attraversa il vangelo di Giovanni sin dalle nozze di Cana, e tutte le sue occorrenze portano a questo versetto. Il termine e il tema dell’ora sono apocalittici e nelle visioni del profeta Daniele l’espressione «l’ora della fine» (Dn 12,4) rimanda all’ora imminente della morte. Il quarto evangelista articola hōra con tèlos, per dire che l’ora di Gesù è l’ora del “compimento” dell’amore, più che della sua fine.

Anche Giovanni, come nei Sinottici, nel contesto della cena pasquale, introduce il tradimento di Giuda: «Durante la cena, quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda, figlio di Simone Iscariota, di tradirlo» (Gv 13,2).  La separazione più assoluta, quella del traditore, nel momento in cui Gesù esprime il massimo della koinonia, della comunione, della prossimità. Il traditore è lì, è attorno a quella tavola della pasqua del Signore, dove anche a lui, come agli altri, il Maestro lava i piedi.

Ormai la cena volge alla fine, ed è in essa, come per darle un’evidenza forte e imponente, che Gesù fa quel rito. Ma lo inverte, nella piena consapevolezza di ciò che egli doveva fare come ultimo gesto per i suoi discepoli. Gesù ha voluto introdurli al significato ultimo della croce perché non fosse equivocata, mostrando loro fin dove è possibile amare, “fino all’estremo”, fino al dono della vita. Secondo i Vangeli sinottici Gesù ha mostrato questo amore dando pane e vino come suo corpo e suo sangue ai discepoli (cfr Mc 14,22-25). Giovanni preferisce tralasciare l’Eucaristia – a cui aveva già fatto riferimento al cap. VI del suo Vangelo – per introdurre il racconto della lavanda dei piedi. Ma i due segni dicono la stessa cosa, raccontano la stessa verità e, infatti, sono seguiti da due comandi, gli unici due dati da Gesù in riferimento ad un’azione significativa: «Fate questo in memoria di me» (Lc 22,19; 1Cor 11,24); «Anche voi fate come io ho fatto a voi» (Gv 13,15). Due gesti relativi al corpo: corpo di Gesù dato; corpo del discepolo servito da Gesù. Ciò che avviene nell’Eucaristia e ciò che avverrà sul Calvario. Nel gesto della lavanda dei piedi dei discepoli, noi contempliamo la manifestazione dell’Amore Trinitario. In Gesù che si umilia, si mette a disposizione dell’uomo, di tutti gli uomini, si rivela l’umiltà di Dio che manifesta la sua onnipotenza e la sua suprema libertà anche nell’apparente debolezza. In Gesù che lava i piedi è simboleggiato il mistero dell’Incarnazione, dell’Eucaristia, della Croce; e ci chiede di imitarlo, ci insegna che attraverso un umile servizio di amore ai fratelli noi possiamo trasformare il mondo e offrirlo al Padre in unione con la sua offerta.

Per indicare il togliere (tithēmi) e rimettere (lambanō) le vesti, Giovanni utilizza gli stessi verbi che usa nel cap. 10 per indicare il deporre e riprendere la vita da parte di Gesù. Associa così la lavanda dei piedi con la sua morte e risurrezione: il gesto consueto compiuto solitamente dagli schiavi come accoglienza delle persone nella casa, qui diventa un’azione profetica, con cui Gesù – il Signore – capovolge ogni ruolo e pone il fondamento della comunità cristiana. Deporre le vesti, spogliarsi è dare sé stesso nella propria nudità all’altro, e questo avverrà al Golgota, ma ora è chiaramente un gesto di spogliazione, di impoverimento di sé stesso, un disarmarsi. Quella sera Gesù non ha fatto come ultima azione un miracolo, ma un’azione che ciascuno di noi può e deve fare. Ognuno di noi nella Chiesa. A maggior ragione chi è istituito, ordinato ministro. Ma disarmarsi è, soprattutto, quello che devono fare in questo momento i ‘grandi del mondo’ che seminano guerra e mietono distruzione e morte. Umiliarsi. Tutti. Nessuno escluso. Quanto potrebbero imparare dal gesto di Gesù, a maggior ragione se si dicono suoi seguaci, cristiani!

Siamo noi – stasera – gli invitati a quella stessa tavola, noi chiamati a prepararla e a prendervi parte per la nostra salvezza, ma anche i possibili traditori, rinnegatori, in fuga di fronte alla ‘misura della croce’, indisponibili a disporre di tutta la nostra vita per un amore più grande. Lasciamoci raggiungere dalle sue parole: «Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv 13,15).

I segni dell’eucaristia (pane e vino) e la lavanda dei piedi (acqua e grembiule) che stiamo ponendo stasera, ci fanno fare memoria dell’amore ‘folle’ di Dio. Gesù, Signore e Maestro, si china su di noi, ci vuole lavare i piedi per farci arrivare ancora una volta la chiamata alla follia di un amore smisurato, all’eccesso dell’amore.