Omelia dell’Arcivescovo di Palermo Mons. Corrado Lorefice
Canterò in eterno l’amore del Signore, di generazione in generazione
farò conoscere con la mia bocca la tua fedeltà,
perché ho detto: “È un amore edificato per sempre;
nel cielo rendi stabile la tua fedeltà” (Sal 88,2).
La vita di Fratel Biagio è dentro queste parole. Il Salmo 88 ci racconta la sua storia, il suo modo di affidarsi a Dio, la sua costanza nell’umiltà che sa riconoscere la grandezza del Signore, ma anche il suo tormento nella scoperta che l’Amore non è amato.
Biagio ha sempre ricordato questo a noi tutti, ai suoi amici, e – da vero cristiano, da battezzato – anche a tutta la Chiesa: se gli uomini sono infelici e se nel condurre ogni nostro compito abbiamo talvolta l’impressione di essere stanchi e sconfitti, si tratta di un sintomo facile da riconoscere. È ciò che avviene quando non ci affidiamo a Dio e non cantiamo l’inno al suo amore che è fedele per sempre.
Tu domini l’orgoglio del mare,
tu plachi le sue onde tempestose (Sal 88,10).
Il salmista ci ricorda – come ha fatto tante volte Fratel Biagio – che l’uomo è fatto da Dio, che solo Dio è potente. Come l’orgoglio del mare si dissolve sugli scogli o verso riva, così l’orgoglio dell’uomo è illusione di potenza destinata a infrangersi. L’orgoglio è il grande peccato, il peccato delle origini: equivale a sentirsi grandi come Dio, non accettando di consegnarsi a Lui.
Anche la prima lettura di oggi (1Sam 8,4-7.10-22a) ci parla di questo: Israele non vuole che il Signore regni, vuole un re, un potere impositivo, oppressivo, un potere che schiaccia e riduce a schiavitù ma garantisce con il suo stesso essere la somiglianza di Israele con tutti gli altri popoli della terra. Israele rifiuta ancora una volta la libertà di Dio. Non vuole correre il rischio di fidarsi. L’orgoglio è in fondo un bisogno di sicurezza, una chiusura in un territorio conosciuto e soffocante, che ci impedisce di battere vie nuove, strade di liberazione e di fraternità.
Fratel Biagio sapeva individuare questi segni di orgoglio e di violenza attorno a lui. Li osservava, ce li indicava come monito. Ma dinanzi a ognuna di queste onde tempestose rimaneva sereno e fiducioso perché sicuro che Lui, il Signore, sa sempre come placare i tumulti. E niente potrà togliere dal cuore di Dio l’amore per l’uomo: neppure la cattiveria degli uomini. Ecco l’origine della nostra preghiera e del nostro continuo convertirci: il Signore ci ama, il suo amore è fedele e noi siamo chiamati a credere in questo amore, come Fratel Biagio.
Lui ci ha creduto più di tutti, sin dall’inizio e fino alla fine perché lo ha fatto amando i poveri, che sono prediletti e protetti dal Signore, di un amore più grande (cfr Gv 15,13). Per questo Papa Francesco lo ha definito «generoso missionario di carità e amico dei poveri». E l’unico tumulto che ha conosciuto è stato quello della voce che ha alzato, quello della provocazione che con la sua stessa vita ci ha lanciato, per spingerci – fino a mettersi in pericolo – a guardare quali e quanti scarti umani rischia di produrre una società che dimentica la fratellanza e trascura la Casa comune: sulle strade, nelle periferie geografiche e urbane, nei mari e nei valichi di frontiera.
“Speranza e Carità”, erano le parole di Fratel Biagio e della sua Missione. Speranza e Carità sono le scelte a cui la sua memoria, che col passare del tempo non sbiadisce ma si illimpidisce, ci incoraggia.
Beato il popolo che ti sa acclamare:
camminerà, Signore, alla luce del tuo volto (Sal 88,16).
Fratel Biagio ha camminato alla luce del volto di Dio: ecco il segreto dei suoi occhi pieni di luce! Sono stati tra i primi occhi che ho incontrato, venendo a Palermo come vescovo. E con quegli occhi ho scambiato una promessa affinché questa comunità crescesse come insieme desideravamo: come una comunità capace di essere, nel cuore del Mediterraneo, modello di relazioni generative di dialogo e di pace, di amicizia e di cura. Di fraternità.
Ricorda, Signore, l’oltraggio fatto ai tuoi servi:
porto nel cuore le ingiurie di molti popoli,
con le quali, Signore, i tuoi nemici insultano,
insultano i passi del tuo consacrato (Sal 88,51-52).
Anche in questo caso Fratel Biagio ha fatto sue le parole del salmo: ci insegna molto, e ci accompagna ancora, il suo dolore per i tanti modi in cui gli uomini continuamente si allontanano dal Signore.
Mi piace pensare, oggi, che Fratel Biagio fosse tra quelli che hanno portato a Gesù il paralitico, sfondando il tetto: «Gesù, vedendo la loro fede, disse al paralitico…» (Mc 2,5). Vedendo la loro fede… L’efficienza e l’operosità dei quattro fa sì che il Vangelo secondo Marco riconosca in loro i primi credenti. Quegli amici che si organizzano e sfondano il tetto, aprendo una breccia dall’alto, rischiano in tutti i sensi e rischiano perché amano: amano l’amico paralitico e nello stesso tempo sentono nel cuore che solo lui potrà salvarli.
E chi, ancora una volta, ha creduto ciecamente più di Fratel Biagio? Chi ha rischiato più di lui? Chi, più di lui, ha superato ogni difficoltà per portare i sofferenti a Gesù? Chi ha amato di più?
Un anno fa, in Cattedrale, durante le esequie, salutavamo Fratel Biagio ricordando come a lui sia stato dato il triplice dono di vivere da povero, di vivere con i poveri e di vivere per i poveri.
Oggi è nostro compito ricordare che la sua incarnazione di quel Vangelo dice anche che nella Chiesa povera e dei poveri di cui abbiamo condiviso lo spirito; nella Chiesa povera e dei poveri che ci ha indicato già il concilio Vaticano II; nella Chiesa povera e dei poveri che qui, nella nostra Palermo, ha reso possibile l’abbraccio esemplare e profetico tra Fratel Biagio e Papa Francesco; nella Chiesa povera e dei poveri che chiede in primo luogo ai nostri presbitèri, ai consacrati e alle consacrate, di ispirarsi al cammino di questo nostro fratello pellegrino e orante, sofferente tra i sofferenti e gioioso tra i più umili, tra i più semplici, ecco: in questa Chiesa non possono più esserci tetti da sfondare, né porte anguste da attraversare. «In verità mi sto rendendo conto che Dio non fa preferenze di persone» (At 10,34), afferma Pietro a casa del centurione Cornelio.
È bella la conclusione della pagina del Vangelo: segno che si è guariti dal Signore è il fatto che non si diventa mai arroganti. Il povero, il ferito guarito dallo Spirito, porta sempre con sé il lettuccio (cfr Mc 2,12) per ricordare la sua fragilità, la sua storia, e cantare in eterno l’Amore, il Perdono e la Consolazione del Dio Uno-Trino. Chi, meglio di Fratel Biagio, lo può confermare?
Muoviamoci tutti insieme oggi, idealmente, dietro a Fratel Biagio, dietro agli amici del paralitico del Vangelo. Muoviamoci insieme, amata Chiesa di Palermo, perché l’onore che oggi rendiamo a Biagio non sia solo un fatto emozionale o di facciata, l’onore che si rende ai martiri in morte, ipocrita e stucchevole se non è accompagnato da una conversione autentica sulla via della testimonianza e della santità. Palermo attende che l’opera di Fratel Biagio venga proseguita e rafforzata. Ciò significa porre gesti di condivisione e, dunque, di liberazione, di consolazione, di profezia.
Liberazione dal bisogno delle nostre sorelle e dei nostri fratelli immobilizzati dalla povertà, dalla mancanza di scuola e di lavoro, pilastri fondamentali di ogni umana dignità come ci ricorda la nostra Costituzione; dei nostri giovani in balia dei mercanti di false e devastanti felicità. Consolazione dei malati, dei senza riparo, di coloro che anelano a una sanità giusta e inclusiva, pubblica ed efficace. Profezia levata contro tutti i sedicenti ‘re’ che pensano di regnare a Palermo e dintorni, schiacciando con un potere che distrugge e non favorisce la vita; profezia che grida contro tutti gli uomini della mafia che si sentono padroni capaci di rendere schiavi gli altri – soprattutto i bambini, le donne e i fragili –, e non si rendono conto di essere infelici e di combattere da insani contro il Disegno di felicità che Dio ha per tutti, anche per loro.
Questa forza del Vangelo attingiamo stasera da Fratel Biagio, rendendo grazie al Padre per avercelo donato e impegnandoci insieme, nella preghiera e nell’azione – sulla via di Maria, Colei che ha cantato il canto di Dio che depone i potenti dai troni e innalza gli umili –, a fare della nostra Palermo e della Casa comune uno spazio di vita, di pace e di speranza più prossimo al Regno che viene.
Custodiamo «la preziosa speranza di un mondo migliore e più giusto». Ci sostengano sempre le sue parole: «Sento nel cuore, grazie al buon Dio, di incoraggiare questa sofferente società e ogni essere vivente, ogni uomo e ogni donna di questa Terra. Aiutiamoci gli uni con gli altri per ricostruire insieme la pace e la vera speranza».