Omelia
Al cuore della proposta del CSI c’è la visione cristiana della vita, cioè la vita secondo la vita di Gesù Cristo, che ha dato sé stesso, ha donato la vita per riversare in noi la vita di Dio stesso, il suo amore infinito. Infatti il CSI, “promuove lo sport come momento di educazione, di crescita, di impegno e di aggregazione sociale, ispirandosi alla visione cristiana dell’uomo e della storia nel servizio alle persone e al territorio”.
Ora il racconto di Gesù su questa vedova non vuole essere una lezione di morale per esaltare la sua generosità e condannare l’avarizia dei ricchi. Sarebbe ben poco. Il racconto ha un messaggio simbolico che oggi arriva a noi, e ci arriva perché qui in mezzo a noi è presente il Signore Gesù che abbiamo riconosciuto mentre veniva proclamato il Vangelo. È lui che ci parla quando nell’assemblea dei cristiani – soprattutto la domenica, Pasqua della settimana – vengono proclamate le pagine della Bibbia.
La vedova, “nella sua povertà, vi ha messo tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere (ἔβαλεν ὅλον τὸν βίον αὐτῆς)” (Mc 12,44), letteralmente: “ha gettato la vita sua intera”, ha dato tutta la sua vita.
È un gesto folle. Come quello della vedova della prima Lettura, dare ciò che è essenziale per vivere. È un paradosso. È un gesto assurdo. La vedova dà la vita per ciò che sarà distrutto – il tempio e il suo tesoro – e che viene rappresentato e gestito da uomini che divorano le case delle vedove. Una forte critica all’ipocrisia religiosa.
Ma diventa parabola della vita di Gesù, narrazione della sua vita donata. Gesù è colui che getta, depone, dona la vita. Il suo dono totale è assurdo secondo la logica umana. La morte di Gesù è in sé inutile. Muore da sconfitto, messo alla berlina. Viene eliminato. Eppure per coloro che ne fanno memoria – per noi, tutte le volte che ci raduniamo per l’Eucaristia domenicale e annunciamo la sua morte, proclamiamo la sua resurrezione, nell’attesa della sua venuta definitiva –, è fonte efficace di vita autentica, di vita piena. Perché, come questa donna, Gesù dona tutto sé stesso, ‘getta’ sé stesso, consapevolmente, liberamente e, soprattutto, per amore, perché come lui stesso dice nel IV Vangelo: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando” (Gv 15,13-14).
Fare sport da cristiani significa scegliere ed essere mossi dal paradosso dell’amore. Dare la vita. Donarla. Amare l’altro, gli altri. Nello sport non ci sono mai nemici. Solo amici. É la gioia di giocare che muove, di gioire, di incontrarsi, di riconoscersi. Prima di ogni altra cosa, di ogni differenza geografica, culturale e religiosa, si è fratelli e sorelle. Lo sport è gioco – dal latino iŏcare, iŏcari, “scherzare” –, è incontro di gioia, è ‘liturgia’ della gioia. Lo sport comporta competizione, ma non aggressione. Quando diventa tale, violenza, prepotenza fisica e verbale, ricerca di affermazione a qualsiasi costo, senza rispetto delle regole, non è più sport, non è più scherzare, giocare, ma ricerca di potere, lesione della dignità e della libertà umana, fonte di disumanizzazione. È abuso! Sport e abuso sono antitetici. Da fonte di umanizzazione a spazio di disumanizzante. Tradimento della forza formativa ed educativa che lo connota.
Celebrare gli ottanta anni di fondazione del CSI a Palermo, e farlo con una Eucaristia nella nostra Cattedrale dove è sepolto il Beato Martire Giuseppe Puglisi, acquista un significato particolare e prospettico. Grande educatore dei giovani, difensore della loro dignità e libertà. Per loro ha ‘gettato’ la sua vita, l’ha donata. Ha amato fino a dare la vita. Egli ci ricorda che il CSI ha una missione di ‘animazione vocazionale’: aiutare le nuove generazioni a rispondere alla chiamata umana e cristiana che il Signore ha seminato in loro. Lo sguardo di don Pino era stato folgorato dallo sguardo di Gesù. Ne portava impressa negli occhi la luce. Quella luce che abbagliò e ‘ri-chiamò’ anche il suo assassino, Salvatore Grigoli, oggi non solo pentito, un cosiddetto collaboratore di giustizia, ma un convertito a Dio: luce che attingeva anche dalla grazia del ministero presbiterale vissuto con gioiosa e totale donazione.
In un testo di chiaro riverbero autobiografico trovato da in una carpetta in Curia a Palermo – non abbiamo la certezza che sia stato lui stesso a redigerlo –, don Puglisi dice: “Nella mia vita, infatti, ho cercato di porre attenzione innanzitutto ai bisogni dell’uomo per poi poterlo mettere nelle condizioni di poter abbracciare “liberamente” la fede nell’unico Dio che io annuncio. […] mi sono detto: “Cristo, quando è venuto, non ha forse mangiato con i pubblicani e si è visto in compagnia dei peccatori?”. Mio ideale era quello di imitare il Maestro. Sì, essere occhio per il cieco, piede per lo zoppo, seme di una nuova cultura della legalità illuminata dalla fede. Queste le linee di massima, le linee in cui mi muovo. Queste le linee adottate a Godrano, al CDV dove cercavo di aiutare i giovani, poveri giovani, a fare chiarezza dentro di loro almeno per poter capire a cosa il Signore li chiamava. Questo ho fatto anche in seminario dove sono stato accolto come padre spirituale. Queste le linee adottate a Brancaccio nella parrocchia di San Gaetano. A Brancaccio io ho anche la mia casa e la sera quando rientro mi piace starmene un poco in silenzio per strada prima di entrare. Lo faccio per ascoltare, è infatti alla sera, quando si spengono i rumori della giornata, che nell’aria si respira la sofferenza, l’ingiustizia, il bisogno degli uomini e il bisogno dei piccoli. […] Non sono un eroe né un prete antimafia. Sono solo un uomo, un battezzato che ha ricevuto la grazia di un ministero specifico: il sacerdozio. Chi sono dunque? Un pastore, uno di quei pastori di cui parla la Bibbia. Quei pastori che camminano innanzi alle pecore per tracciare loro la strada. Questo genere di pastore affronta i pericoli e difende le sue pecore per condurle al pascolo abbondante. Questo genere di pastore ha un solo modello: Gesù Cristo. Imitare Gesù Cristo oggi non vuol dire vestire come lui o cose simili, ma chi è chiamato a farlo deve vivere del suo stesso respiro, porre i propri passi sulle sue orme. E, se ti dovessi accorgere che queste orme conducono alla croce, gioisci e fai come lui ha fatto: dona la tua vita spontaneamente. Ricorda: dare la vita non è morire, ma è il massimo servizio che può rendere un vero servo di Dio”.