Carissime, Carissimi,
il tempo liturgico di Avvento che si apre davanti a noi viene rischiarato dalle parole del Vangelo di Giovanni: «Veniva nel mondo la Luce vera quella che illumina ogni uomo. […] Venne fra la sua gente» (Gv 1, 9.11).
È proprio vero quanto scrive S. Agostino: «Le Scritture, nella notte di questo secolo vengono accese per noi come lucerne, perché non rimaniamo nelle tenebre» (S. Agostino, Trattati su Giovanni, 35, 8-9). Il testo del prologo del IV Vangelo parla di noi ed è per noi. Siamo noi “la gente” visitata da questo Veniente, dal Figlio unigenito del Padre, il Verbo fattosi carne (sarx), sceso ad abitare in mezzo a noi (cfr 1Gv 1, 14); il bambino nato dalla vergine Maria a Betlemme e avvolto in fasce in una mangiatoia (cfr Lc 2,7); il cittadino di Nazaret residente nella casa comune che è il mondo. Un ‘ultimo’, un neonato precario, un perseguitato, un rifugiato, un artigiano, uno sfigurato (cfr Is 52, 14) in cui rifulge «la gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità» (Gv 1, 14). Il crocifisso innocente avvolto in un lenzuolo e deposto nel sepolcro del Golgota (cfr Lc 23, 53), risorto e apparso a Cefa (cfr 1Cor 15,5).
In lui abbiamo «conosciuto il Padre», e «quale grande amore ci ha dato il Padre» (1Gv 2,14. 3,1)! Un Amore che ci precede, che sopraggiunge al di là di ogni possibile attesa, nella misura della makrothymia (guardare e sentire in grande: cfr 2Pt 3, 9; 1Tm 1, 16). Che si ‘svuota’ e si fa ‘ultimo’, che “ama per primo” (cfr Fil 2, 5-11; 1Gv 4,19).
«Il cristiano – ha scritto San J. H. Newman – è colui che attende il Cristo; che non attende vantaggi, distinzioni, poteri, piaceri o consolazioni, ma unicamente nostro Signor Gesù Cristo, il Salvatore» (Maturità cristiana, Milano 1956, 224). Spesso per molti “attesa” è sinonimo di passività e inerzia, di evasione e de-responsabilizzazione. In realtà il cristiano si lascia definire dalla relazione con il Cristo, che è venuto, che viene nell’oggi e che verrà nella gloria. “Attendere” indica una “tensione verso”, “un’attenzione rivolta a”, per cui l’attesa è un’azione, non chiusa nell’oggi, ma che opera sul futuro. E con la loro attesa operosa i cristiani affrettano la venuta del giorno del Signore (cfr 2Pt 3,12). La nuova creazione abitata e custodita dalla nuova umanità.
Avvento è il tempo che dilata e dà luce agli occhi del cuore. Che ci fa riconoscere nella vicenda della porta accanto, quella che si consuma nelle nostre famiglie, nei quartieri delle nostre città, lungo le strade del villaggio-mondo un rinnovato avvento, la continua venuta tra noi del Verbo fattosi carne. Avvento è il tempo che spalanca la porta della mia vita, la porta di casa mia. Il tempo in cui la mia umanità si dilata, attende, riconosce, accoglie, ricolma di amore. «Noi amiamo, perché egli ci ha amati per primo. Se uno dicesse: “Io amo Dio”, e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. Questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche il suo fratello» (1Gv 4, 19-21).
L’Avvento – Carissime, Carissimi, – sprona alla conversione missionaria l’amata Chiesa palermitana. Se mettiamo al centro delle nostre comunità cristiane le Scritture e la luce di vita che emanano, se ripartiamo dalla narrazione dell’amore di Dio che ci ha fatto il Bambino di Betlemme, saremo capaci di testimoniare con audacia e creatività questa logica intrinseca di Dio. “Primeggiamo” («primerear, prendere l’iniziativa», come ci ricorda papa Francesco in Evangelii Gaudium, 24) nel riconoscere la venuta del Signore negli scarti di questa società e nel proclamare: “prima gli ultimi”. Gesù continua a venire. Vuole essere atteso, riconosciuto, accolto.
Ci vogliono comunità cristiane che ricordano a tutti: “prima gli ultimi”, perché hanno realmente conosciuto Colui che «ci ha amati per primo» (1Gv 1, 19). Comunità che attendono l’avvento definitivo di Cristo Signore, riconoscendo la sua continua venuta nella carne degli ultimi, dei precari, dei disorientati nella mente e nello spirito, dei perseguitati, dei rifugiati, dei carcerati, degli ammalati, dei profughi, dei dimenticati. «Ma se uno ha ricchezze di questo mondo e vedendo il suo fratello in necessità gli chiude il proprio cuore, come dimora in lui l’amore di Dio?» (1Gv 3, 17).
“Per primi”: in questo dovremmo gareggiare ad essere primi nel riconoscere l’altro. Questa è la logica di Dio, – il Dio che ci ha narrato Gesù – la logica di chi per primo viene incontro e dona uno sguardo. Che gioca in anticipo, non emerge in potenza ma nel raggiungere l’altro.
Per primi, per primo, mettere l’altro sempre prima. Oggi l’Occidente sta fallendo su questo. Abbiamo acquisito il concetto di persona e di libertà, ma rischiamo di tradire questi stessi alti e fondamentali valori umani perché stiamo offuscando quello di responsabilità, di cura dell’altro.
Sempre per primi, non per ‘primati umani’ ma per andare incontro all’altro. Prima sempre l’altro, gareggiamo nel ‘primeggiare’, nel prendere l’iniziativa. Solo questo è bello e buono. Chi o quanti vogliono primeggiare per spirito di autoreferenzialità e di predazione, di concorrenza e di brama di potere, per paura del diverso e per mettersi al sicuro contribuiscono a un mondo di infelicità e di tristezza, di scarti umani e di morte, di indifferenza e sospetto, di muri e di odi, di violenza e di sfruttamento.
Signore, tu «hai mandato a noi la luce vera, che guida tutti gli uomini alla salvezza», in questo tempo di Avvento «donaci la forza del tuo Spirito perché possiamo preparare davanti al Figlio tuo la via della giustizia e della pace» (Dalla Liturgia delle Ore).
A tutti giunga il mio abbraccio benedicente.
+ Corrado Lorefice
Arcivescovo
Palermo, 1 dicembre 2019, I Domenica d’Avvento