Non sono tra coloro che demonizzano la legge sul consenso informato e sul testamento biologico. Non l’ho fatto quando fu approvata alla Camera e non lo faccio oggi, all’indomani della sua definitiva approvazione al Senato. Contiene norme di cui mi rallegro, come quella che condanna l’accanimento terapeutico: «Nel caso di malattia grave e inguaribile, con prognosi infausta a breve termine, in presenza di sofferenze refrattarie ai trattamenti, sono esclusi ogni ostinazione irragionevole delle cure e l’accanimento terapeutico. Il medico può ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua, anche su richiesta del paziente, al fine di evitare al paziente stesso sofferenze insopportabili e non altrimenti evitabili, in associazione con la terapia del dolore».
Il recente intervento di papa Francesco su questo punto non ha fatto che ribadire un criterio in linea di principio sempre condiviso dai cattolici, anche se, nel caso Welby, si è visto quanto sia difficile di fatto restargli fedeli. Allora proprio esponenti autorevoli della Chiesa denunciarono come eutanasia la morte invocata da un uomo che non aveva più i polmoni e sopravviveva, senza speranza, grazie a una ventola, negandogli i funerali religiosi.
Sono invece contrario a equiparare, come fa il testo della legge sul testamento biologico, l’idratazione e la nutrizione alle terapie mediche. A me sembrano un normale ricambio dell’organismo che attinge all’ambiente esterno ciò che gli è necessario per vivere. Esse non suppongono, come invece le terapie, alcuna patologia e dunque non ha senso sospenderle insieme a queste ultime.
Peraltro, mi fa pena anche vedere morire di sete una pianta, peggio ancora un gattino. È una bruttissima morte per qualunque organismo vivente. Per quanto mi riguarda, preferire chiedere nelle mie “disposizioni anticipate di trattamento” la richiesta che mi si spari un colpo di pistola alla testa, piuttosto che lasciarmi morire di sete.
Ma, in questa legge, non è il “detto”, alla fine, il problema più grosso. È il “non detto”. Oggi l’ermeneutica ci insegna che un testo va compreso alla luce del con-testo, di ciò che nel testo non è contenuto, ma che è decisivo per intenderne il significato. Ora, ciò che il testo della legge sul testamento biologico non dice, e che probabilmente non poteva dire, è la “filosofia” a cui esso si ispira. Per sapere quale sia questa filosofia non è necessario andare a fare “dietrologia”: sono gli stessi sostenitori della legge a esporla senza reticenza. Come, per esempio, faceva Michela Marzano in un articolo su «La Repubblica» del 27 febbraio scorso, poco prima dunque della discussione alla Camera, di questa legge, a suo avviso fondamentale per distinguere un paese civile da uno che non lo è. «Sono anni», scriveva, «che il fronte del “no” invoca il concetto di “sacralità della vita”, facendo finta di non sapere che la dignità di ognuno di noi si fonda sulla nostra autonomia, e che nessuno dovrebbe arrogarsi il diritto di giudicare le nostre scelte e i nostri desideri».
La verità che enuncia la Marzano le sembra così evidente da dover supporre che chi la nega “faccia finta” di non vederla. Eppure, in un tempo di pluralismo, si potrebbe anche concedere che chi la pensa diversamente da noi sia in buona fede! Già un simile atteggiamento, sostanzialmente intollerante, molto comune fra i sostenitori di questa posizione, getta una luce inquietante sul significato della legge. Siamo, nella loro ottica, davanti a una “battaglia di civiltà”, non a una possibile interpretazione della vita e della realtà, sostenibile con ragioni da prendere in esame…
Ma, a lasciarmi fortemente perplesso, è anche – anzi ancora di più – il contenuto dell’affermazione della Marzano, emblematica di tutta una linea di pensiero oggi molto diffusa: «La dignità di ognuno di noi si fonda sulla nostra autonomia, e nessuno dovrebbe arrogarsi il diritto di giudicare le nostre scelte e i nostri desideri».
Siamo davanti a una precisa visione filosofica che ha le sue origini nel pensiero di John Locke, il quale nel XVII secolo, alle origini del capitalismo, ha sostituito, nella definizione della persona umana, il linguaggio dell’essere con quello dell’avere, mettendo in primo piano il concetto di “proprietà” – sempre più diffuso a quel tempo in cui stava nascendo il capitalismo – nel rapporto che ognuno ha con se stesso. Siamo proprietari delle nostre facoltà, sia fisiche che spirituali, come lo siamo del nostro lavoro e dei prodotti del nostro lavoro.
In questo modo si passava dall’idea della “sacralità” dell’essere umano, che lo considera responsabile di se stesso e delle sue scelte davanti a Dio e agli uomini, a quella di una sua totale disponibilità al soggettivo volere dell’individuo, come un qualunque oggetto di cui egli sia proprietario. Le donne che sfilavano gridando «l’utero è mio e ne faccio quello che voglio» erano in perfetta linea con questa visione.
Da qui la rivendicazione di un’autodeterminazione concepita non solo come libertà di scelta (del tutto condivisibile), ma come assoluta autonomia, col solo limite rappresentato dall’analogo diritto dell’altro su se stesso. Da dove la famosa formula secondo cui «la libertà di ciascuno finisce dove comincia quella dell’altro». Ogni uomo è un’isola e la società un arcipelago. Viene del tutto respinta l’idea di una reciproca responsabilità che lega ciascuno agli altri e fa sì che la sua libertà cominci, non finisca, dove comincia la loro.
È il caso forse di aggiungere che da questa concezione – denominata da alcuni storici “individualismo possessivo” – deriva anche la riduzione delle facoltà e del lavoro umano a merce che, come qualunque cosa di cui si sia proprietari, può essere data in affitto o messa in vendita. È l’impianto concettuale da cui è derivata la nostra società capitalista. Con i suoi pregi e i suoi limiti.
Si può solo essere molto sorpresi che questa visione – tradizionalmente “di destra” (Marx, che sottolineava, in polemica con essa, il carattere sociale e relazionale dell’essere umano, la bollava come una «robinsonata», da Robinson Crusoe, solo nella sua isola) – passi oggi come “di sinistra” e venga sposata dai lontani eredi di Marx che, orfani della rivoluzione, si sono ridotti a sposare e sbandierare la tesi opposta a quella che originariamente caratterizzava il loro Dna.
In ogni caso, è questa filosofia che oggi trionfa nell’approvazione della legge sul testamento biologico. In realtà, però, i princìpi di fondo a cui i suoi sostenitori si ispirano vanno molto al di là di quanto il testo legislativo approvato dal Senato prevede. Se «nessuno dovrebbe arrogarsi il diritto di giudicare le nostre scelte e i nostri desideri», non si vede perché escludere, a questo punto, scelte e desideri più radicali di quello di non essere curato. Gli stesi sostenitori della legge non fanno mistero del fatto che per loro questo è solo un primo passo verso la legalizzazione dell’eutanasia.
Ecco il contesto che mi inquieta, mentre c’è chi piange di gioia nel vedere finalmente vinta questa “battaglia di civiltà”. Ed ecco perché rivendico il diritto, in una sana logica di pluralismo, di dissentire dalla logica dell’individualismo possessivo, in campo etico come in campo sociale ed economico, senza essere accusato di “far finta” di non vedere che questa è la sola visione compatibile con la civiltà.