È un percorso comunitario per far emergere le pratiche di bene e di pace che vedono protagoniste “Le Rosalie invisibili del Mediterraneo" in occasione del 400° anniversario del Festino di Santa Rosalia nella città di Palermo; un itinerario territoriale che vede in santa Rosalia una giovane donna alla ricerca del senso profondo della propria vita, simbolo per le nostre donne di:
liberazione, fragilità, coraggio, Mediterraneo.
Rosalia è la santa patrona di Palermo e simbolo del Mediterraneo, dei suoi abitanti e dei nuovi cittadini migranti, del dialogo interculturale e interreligioso, della pace tra i popoli che accoglie e protegge e alla quale chiediamo di liberarci dalla nuova peste della violenza e delle guerre.
“Siate mare di bene, per far fronte alle povertà di oggi con una sinergia solidale; siate porto accogliente, per abbracciare chi cerca un futuro migliore; siate faro di pace, per fendere, attraverso la cultura dell’incontro, gli abissi tenebrosi della violenza e della guerra (Papa Francesco, “Rencontres Méditerranéennes”, 23 settembre 2023, Palais du Pharo - Marsiglia).
Inizieremo il nostro percorso itinerante attraverso il Vocabolario delle Donne: da giugno a novembre 2024 si articolerà in alcuni quartieri di Palermo un percorso territoriale di incontro tra gruppi di donne, le tante Rosalie di oggi, che si confronteranno su parole chiave attraverso il vocabolario delle donne, parole definite dalla sensibilità e dai vissuti delle donne con un approccio interculturale, intergenerazionale, intersezionale.
Durante questi mesi abbiamo raccolto e stiamo ancora raccogliendo le parole delle donne che via via inseriremo all’interno del sito della diocesi di Palermo e all’interno del sito Sorelle Diocesi di Napoli che coinvolge al momento una rete di sette diocesi, donne e vescovi che si stanno confrontando insieme sul ruolo delle donne all’interno della chiesa e del mondo (Diocesi di Palermo, Catania, Mantova, Verona, Reggio Calabria-Bova, Cassano sullo Ionio e Napoli). Le parole raccolte saranno poi ridiscusse con altri gruppi di donne e con le comunità territoriali, per creare uno spazio di ascolto e di confronto reciproco attraverso la risignificazione delle parole e tracciando linguaggi e visioni di futuro e di speranza possibile.
Ci saranno quattro tappe da condividere insieme all’Arcivescovo della Diocesi di Palermo, mons. Corrado Lorefice e al preside della Facoltà Teologica di Sicilia, don Vito Impellizzeri alla presenza di associazioni e gruppi di donne, comunità territoriali specifiche a seconda del tema:
- Santa Rosalia e le donne della liberazione e del riscatto dalle ingiustizie sociali e dalle ingiustizie di genere per una cittadinanza universale 29 giugno ore 10.00;
- Santa Rosalia e l’impegno contro la violenza sulle donne: Giù le mani da Rosalia, flashmob promosso dal Centro Antiviolenza dell’Associazione Le Onde - ETS, iniziativa a cui aderisce anche la Diocesi di Palermo e che si svolgerà il 13 luglio 2024 alle ore 18.45 a Piazza Politeama;
- Santa Rosalia e le donne del coraggio, incontro con le buone pratiche promosse dalle donne 20 settembre 2024 ore 17.00;
- Santa Rosalia e il Mediterraneo, dialogo interculturale e interreligioso nelle nostre città ibride e mediterranee 10 ottobre 2024 ore 17.30;
- Santa Rosalia e le fragilità delle donne, la cura dell’affettività, la trasformazione dei conflitti in opportunità di crescita e di ben-essere della comunità per costruire percorsi di pace, 22 novembre 2024 ore 17.00.
I luoghi degli incontri saranno itineranti nella città e comunicati attraverso il sito e i canali social della Diocesi di Palermo.
Il percorso è stato presentato alla città domenica 28 aprile 2024 alle ore 12.00 all’interno dell’iniziativa “La Via dei Librai - Artigiani di Pace 2024” sul sagrato della Cattedrale di Palermo. Sarà presente per un saluto l’Arcivescovo di Palermo Mons. Corrado Lorefice.
“SANTA ROSALIA E LE DONNE DELLA LIBERAZIONE": SABATO 29 GIUGNO 2024, ORE 10.00
Sarà il quartiere ZEN – San Filippo Neri a ospitare la prima tappa del cammino “Il Vocabolario delle donne - Le Rosalie invisibili del Mediterraneo” promosso da Sorelle Diocesi di Palermo: tra i temi affrontati, il riscatto dalle ingiustizie sociali e dalle ingiustizie di genere per una cittadinanza universale. Un appuntamento che si colloca nel cammino della Chiesa di Palermo verso il 400° Festino in onore di Santa Rosalia.
Sabato 29 giugno 2024 alle ore 10.00 al Giardino di via Primo Carnera (angolo via Fausto Coppi, Laboratorio ZEN Insieme) saranno protagoniste “Santa Rosalia e le donne della liberazione”.
Introduce e modera: Anna Staropoli, sociologa, referente Sorelle Diocesi-Palermo
Intervengono: Karidja Diabate, Julia Isasi Consuegra, Istituto G.B. Montini di Milano – Ass. Levito Onlus, Suore di Carità delle SS. B. Capitanio e V. Generosa, Le donne di Spazio Mamme – Laboratorio ZEN Insieme, Spazio Donna ZEN – Associazione Handala
Concludono: Don Vito Impellizzeri, Preside Facoltà Teologica di Sicilia e Mons. Corrado Lorefice, Arcivescovo di Palermo
“SANTA ROSALIA: FRAGILITA’ E FORZA DELLE DONNE” – 22 novembre 2024, ore 16.30, Centro Diaconale “La Noce”
Sarà il Centro Diaconale “La Noce” presso l’Istituto Valdese in via Giovanni Evangelista Di Blasi n.12 a Palermo ad accogliere la quarta tappa del cammino dal tema “Santa Rosalia: fragilità e forza delle donne”.
Interverranno: Anna Ponente, Maria Teresa Murgano, Yodit Abrah, Anna Bucca, Martina Riina, Rosalia Auteri, Monica Saia
Introduce e modera Anna Staropoli
Concludono Don Vito Impellizzeri, Preside della Facoltà Teologica di Sicilia e Mons. Corrado Lorefice, Arcivescovo di Palermo
Con la partecipazione di Don Sergio Ciresi, vice direttore della Caritas Diocesana
Le Rosalie del Mediterraneo, 22 novembre 2024, Centro Diaconale La Noce
“IL VOCABOLARIO DELLE DONNE: LE ROSALIE INVISIBILI DEL MEDITERRANEO" – 26 novembre 2024, ore 11.30, Liceo delle Scienze Umane "C. Finocchiaro Aprile"
A partire dalla Giornata Internazionale contro la Violenza sulle donne il 26 novembre alle ore 11.00 al Liceo delle Scienze Umane
"C. Finocchiaro Aprile" ci confronteremo sulle parole libere, coraggiose, fragili, mediterranee delle donne. Il file rouge del percorso sarà "Il Vocabolario delle donne. Le Rosalie invisibili del Mediterraneo".
Riconoscere la diversità delle voci e' il primo modo per aprirsi a un dialogo libero dalla cultura patriarcale del dominio, del potere, del possesso. Ritrovare parole nuove che riconoscano valore alla cultura della diversità e del rispetto reciproco.
Lo faremo insieme a delle Associazioni che da anni lavorano con donne vittime di violenza sia nel nostro territorio che a livello internazionale e con il contributo di esperienze, pratiche e riflessioni di giovani donne. In particolare interverranno:
Anna Staropoli, delegata Sorelle Diocesi- Diocesi di Palermo; Adriana Piampiano dell' Associazione "Le Onde"; Graziella Scalzo dell'Associazione "Pellegrino della Terra"; Osas Egbon dell'Associazione " Donne di Benin City"; Roberto Zampardi del Gruppo Italia 243 - Amnesty International sezione italiana OdV e rifletteremo insieme a Rosalia Auteri, Federica Pani e Eleonora La Barbera
Photogallery:
“SANTA ROSALIA E LE DONNE DEL CORAGGIO” - appuntamento rinviato a data da destinarsi - Istituto Comprensivo statale "Sperone - Pertini" con il coinvolgimento dell'Istituto comprensivo "Giuseppe Di Vittorio"
“Nel profondo del mio cuore speravo di parlare a ogni bambino e bambina che, ascoltandomi, possa trovare il coraggio di alzarsi per far valere i propri diritti” Malala Yousafzai
Introduce e modera: Anna Staropoli
Interverranno: Antonella Di Bartolo, Lucia Lauro, Roseline Eguabor, Monica Garraffa, Valentina Venditti, Cinzia Mantegna, Valentina Chinnici, Angela Marciante
Con la partecipazione di don Sergio Ciresi, Vice Direttore della Caritas Diocesana di palermo per un “gesto concreto”
Concludono: Don Vito Impellizzeri, Preside della Pontificia Facoltà Teologica di Sicilia “San Giovanni Evangelista” e Mons. Corrado Lorefice, Arcivescovo di Palermo
PER INVIARE STORIE E CONTRIBUTI: anna.staropoli@docenti.fatesi.it
ALTRI CONTRIBUTI
FAMIGLIA CRISTIANA, 10.11.2024 - Festival delle donne a Napoli: un inno alla forza femminile tra arte e spiritualità (di Fernanda Di Monte)
Il Festival delle Donne, svoltosi a Napoli dal 4 al 9 novembre, ha affrontato il tema dell'incontro, mettendo in risalto la capacità delle donne di costruire i ponti necessari per far crescere una comunità civile e religiosa, al di là di ogni discriminazione. Ha celebrato la forza e il valore della figura femminile come simbolo di dialogo e convivenza.
È importante evidenziare come la kermesse non sia stata solo una serie di conferenze, ma un evento arricchito da spettacoli e performance artistiche, con l'obiettivo di far riflettere non solo sulla sofferenza, ma soprattutto sulla forza, la determinazione e la responsabilità di essere donne in un mondo che cambia. La metafora di Napoli Madre ha offerto una riflessione sul valore della maternità come simbolo di accoglienza per ogni vita.
Durante la settimana si è potuto riflettere e meditare anche grazie alla preghiera laica a «Maria, Madre di Napoli» dell'attrice e drammaturga Martina Zaccaro; allo spettacolo ispirato al capolavoro di Eduardo De Filippo "Filumena Marturano", intitolato "I figli so' figli", della compagnia Restaur Attori, dove è emersa con forza la capacità del materno di accogliere la vita senza distinguere tra figli legittimi e illegittimi, in contrasto con il codice maschile e patriarcale. Suor Nunzia De Gori, delle Suore della Carità di Santa Giovanna Antida, ha condotto una meditazione biblica sulla pagina evangelica della sirofenicia, che invita Gesù ad aprire il suo cuore per accogliere tutti come figli dell’unico Dio Madre.
Nella performance "Mamme dalle mani nere", donne straniere – ormai considerate a tutti gli effetti napoletane di oggi – hanno portato in scena, insieme a mamme napoletane, la forza e la determinazione di chi lotta per un futuro migliore per i propri figli. Quest’azione è stata supportata da professioniste come la soprano Ilaria Tucci e Martina Zaccaro, coinvolgendo un gruppo di madri della Scuola della Pace della Comunità di Sant’Egidio.
Il Festival si è concluso con una proposta artistica che fonde espressioni sociali, culturali e spirituali, attraverso uno spettacolo che vede donne e uomini riflettere insieme sul superamento del genere, con la partecipazione di artisti come la soprano Ilaria Tucci, l'attrice Martina Zaccaro, la danzatrice Federica Vacca, la coreografa Janet Park, e altri.
L'Arcidiocesi di Napoli ha collaborato con il Settore Laicato e la teologa Adriana Valerio, affidando la cura artistica a Mauro Maurizio Palumbo e al suo Teatro Minimo, noto per il suo impegno sul superamento di genere e su temi sociali. È stato dato ampio spazio anche alla musica, come linguaggio universale che unisce culture diverse, evidenziandone la ricchezza.
Il Festival ha visto momenti significativi come l’incontro tra comunità laiche e religiose, con danze greche e dello Sri Lanka, e riflessioni sulla Carta dei diritti delle donne nel Mediterraneo. Toccante è stato il concerto nella cappella del Tesoro di San Gennaro, dove don Vincenzo De Luca ha presentato musiche di Hildegarda di Bingen interpretate dal soprano Raffaella Ambrosino e dal Coro Ensemble Ami.
Il programma ha incluso anche interventi musicali a cura dell'Orchestra giovanile Musica Libera Tutti di Scampia, un quartiere ai margini ma ricco di iniziative di riscatto, e una conferenza sulle regine di Napoli tenuta dalla storica e scrittrice Nadia Verdile. Non è mancato uno Spazio educativo all'Autostima Femminile, gestito da Carla Greco, e visite guidate a luoghi storici significativi.
La Conferenza "Donne e archeologia" ha aperto uno spaccato sulla Napoli pre-cristiana, dove le donne ricoprivano ruoli importanti, ancora ricordati nel Museo Archeologico di Napoli. Le scuole locali hanno partecipato con lezioni e laboratori sul tema “Contro le discriminazioni per una cultura della convivenza”.
Infine, il festival ha visto l’incontro dell’arcivescovo don Mimmo Battaglia con altre cinque diocesi italiane (Catania, Mantova, Palermo, Reggio Calabria-Bova e Verona) per condividere esperienze sulla valorizzazione del ruolo delle donne nella Chiesa, con la firma del Documento d’intesa "Sorelle diocesi. Comunità ecclesiali in rete". È la prima volta che diocesi diverse si uniscono in sororità, una proposta avanzata proprio dalle donne.
A come Abbraccio, di Karidja Diabate
La parola ABBRACCIO per me ha mille significati: esprime una vicinanza in qualsiasi situazione; un affetto quando ne hai bisogno; una condivisione, cioè, mettersi nei panni dell’altro e la solidarietà in cui vedi l'amore sincero, la famiglia, la sicurezza. Io e mia figlia Anastasia abbiamo trovato nell'Abbraccio l'accoglienza, la sicurezza, il posto sicuro dove la bambina sta crescendo con tutto l'amore che una donna possa immaginare e volere.
A come Allattamento, di Monica Garraffa
L’allattamento è un processo di accudimento già dalla sua specie-specificità. Ogni mammifero, infatti, produce un latte specifico per la propria specie, la cui composizione è funzionale alle necessità del piccolo o della piccola che nascerà. Ogni mamma, infatti, produce un latte su misura, adeguato al proprio cucciolo. In etologia le madri terrestri vengono suddivise in nutrici continue, ovvero madri che portano con sé il piccolo o sono seguite da lui, che sono quindi in costante contatto con il piccolo, e nutrici distanziate, ovvero madri che per protezione nascondono la loro prole o la tengono nel nido. Il latte umano colloca le madri umane nella categoria delle nutrici continue ma col tempo, e sempre più nelle società occidentali, le madri sono diventate nutrici distanziate sotto tutti gli aspetti (per mantenere il loro ruolo personale, lavorativo, sociale, acquisito faticosamente nel tempo e non solo il ruolo di nutrici) eccetto per la composizione del latte. Il fatto che le componenti del latte non siano mutate col mutare del comportamento materno è legato al fatto che la civilizzazione è un fenomeno troppo recente perché abbia potuto incidere in modo apprezzabile sul nostro sistema genetico. Così oggi le raccomandazioni sanitarie esortano a mettere in pratica un contatto precoce pelle-a-pelle tra madre e bambino, insieme all’allattamento da subito, frequente e senza limitazioni, per garantire una produzione di latte costante e adeguata già dai primi giorni e anche nei mesi successivi. Immediatamente dopo la nascita, o quanto prima possibile, il neonato deve essere asciugato bene, messo nudo in contatto pelle-a-pelle con il seno e l’addome della madre e coperto con un telo o un panno asciutto e caldo. Questo contatto deve durare quanto più a lungo possibile, idealmente per almeno un paio d’ore o fino al completamento della prima poppata. Mamma e bambino, insieme al papà se presente, vanno lasciati liberi di interagire spontaneamente, senza interferenze esterne. Permettere a madri e bambini di vivere questo momento di profonda condivisione e conoscenza consente alla donna di esprimere al meglio le proprie abilità istintive e stimolare i riflessi primitivi neonatali. Le regole dell’accudimento e della cura sono le più profondamente radicate nel sistema umano. La particolare forma di attenzione ai bisogni del neonato che si manifesta nella madre nelle prime settimane di vita del bambino, detta preoccupazione materna primaria è stata molto studiata e considerata come una fase fondamentale e di breve durata, destinata a evolvere in comportamenti meno simbiotici. La creazione di una relazione intima nella diade condiziona potentemente in senso positivo lo sviluppo cognitivo, emotivo e fisico del bambino. Per non interferire con questo processo fisiologico bisogna quindi non separare dal momento della nascita le madri e i bambini, permettere che l'allattamento sia a richiesta e non soggetto a orari bensì favorire un immediato approccio al corpo della madre per avviare subito l'allattamento. OMS, UNICEF, Unione Europea, Ministero della Salute italiano e numerose società scientifiche nazionali e internazionali raccomandano che per raggiungere accrescimento, sviluppo e salute ottimali i bambini e le bambine siano allattate esclusivamente per i primi 6 mesi di vita, quindi senza ricevere altre bevande o alimenti al di fuori del latte materno, fatta eccezione, quando necessario, di vitamine e sali minerali e farmaci. La prosecuzione dell’allattamento mantiene la sua importanza anche dopo i 6 mesi e può continuare fino ai 2 anni di vita e oltre, se mamma e bambino lo desiderano. La stessa OMS denuncia però che a livello globale solo 3 bambini su 5 vengono allattati nella prima ora di vita e più della metà dei genitori e delle donne incinte sono esposti al marketing aggressivo della formula. In particolare, UNICEF e OMS hanno studiato approfonditamente questo marketing, dagli spot in tv ai messaggi sui social, dal coinvolgimento degli operatori sanitari all'intrusione nei gruppi on line di discussione tra mamme, nessun canale viene trascurato per aggirare le normative e raggiungere le neo-mamme. Dagli ultimi dati prodotti nel 2023 dall’Istituto Superiore di Sanità la situazione in Italia e in Sicilia mostra un quadro allarmante che vede la nostra isola all’ultimo posto per tasso di allattamento. L’esperienza dell’allattamento (e in modo diverso anche l’esperienza di non allattamento) può essere considerata come un processo di crescita personale. L’allattamento è un processo che si attraversa con la totalità della propria persona, da cui apprendere e lasciarsi trasformare. Come accade in ogni processo creativo, ogni soluzione è sempre una trasformazione di sé. Aumenta la consapevolezza di noi stessi, degli altri, dei propri bisogni, di quelli dei bambini, delle persone vicine alle madri e della interconnessione tra le parti. Uomini e donne oggi soffrono molto della mancanza di un vero rapporto con il loro corpo. Tutta la nostra cultura è orientata a sentire meno dolore possibile. La gente non ha ancora imparato ad amarsi e invece deve imparare a farlo, deve riuscire a mettersi in rapporto con sé stessa attraverso il corpo. Allattamento è anche un processo sociale che comprende il processo ecologico, culturale e politico, strettamente legato ai concetti di potere, fiducia ed empowerment. Trasversalmente riguarda il potere della scienza, il potere economico (risparmio individuale e collettivo vs guadagno delle multinazionali), il potere della conoscenza, della formazione. Ancora riguarda la fiducia. Fiducia nella competenza delle madri e nella competenza dei bambini e delle bambine, fiducia degli operatori nelle loro capacità, nel loro ruolo e nel loro agire professionale, dai quali deriva la fiducia nella relazione di cura sia essa formale o informale. Di fondamentale importanza è la fiducia dei decisori nell'interpretare e nel realizzare le politiche, non solo sanitarie, che condizionano la qualità della vita, il benessere individuale e sociale, la salute delle persone e delle comunità locali, l'equità di accesso a diritti e servizi. La fiducia ė una delle condizioni necessarie affinché sia possibile sviluppare empowerment, cioè autonomia, crescita e responsabilità per acquisire o favorire il proprio benessere e la propria salute. Fiducia intra e interpersonale, tra cittadini e operatori, tra cittadini e decisori politici. L’empowerment è un processo di auto-efficacia, sia individuale che di gruppo che di comunità, che produce cambiamento. L’empowerment non si può dare, si può facilitare o ostacolare, attraverso un uso più o meno consapevole del proprio rango e potere. Per favorire l’empowerment degli altri bisogna prima realizzarlo su sé stessi, comprendendo le origini del nostro potere. Le mamme devono essere sostenute nel costruire il proprio potere personale e la loro autonomia. Ogni sistema umano ha le risorse sufficienti per trovare il proprio modo di far fronte alle difficoltà della vita. E lo possiamo fare promuovendo la parità di genere e un’equa condivisione tra uomini e donne dei carichi di lavoro familiare non retribuito, contribuendo a produrre un cambiamento culturale di fondo della società, creando i presupposti per la fine di ogni tipo di discriminazione, sfruttamento e violenza verso le donne. Madri, dunque, non si è solo del proprio bambino o della propria bambina, quella di madre, infatti, è una condizione dell’anima in cui si manifesta l’accoglienza, un’accoglienza nei confronti dell’universo intero.
A come Anima, di Martina Riina
Nel trambusto sconsiderato dei tempi moderni, accelerati, scellerati, vorticosi, impazienti, impariamo ad aspettare momenti di respiro, ripresa, pensiero, sospensione, ci mettiamo tra parentesi - se solo riuscissimo veramente a farlo - e diamo spazio a chi non ne ha avuto o a chi lo rivendica o a chi non riesce nemmeno a immaginarlo. Un appello a noi stesse, a chi non accetta ciò che viene dall'alto del vortice di questi tempi non indulgenti. Dall'alto arriva il comando di essere prestanti, performanti, evidenti, emergenti, primeggianti, vincenti, impegnati in una corsa senza fine, a spirale, dove una forza schiacciante allontana e opprime. Silenzio, gentilezza, sguardo mite, vicinanza: accogliamo la lentezza, assaporiamo la pochezza, alleniamo la capacità di stare, posarci, restare in attesa. Di questo freno alla corsa, dello stare dentro di noi, del mondo libero da fronzoli, dello spazio silenzioso, del respiro dell'anima. Facciamoci apprendisti del suo mistero.
"Anime salve in terra e in mare" cantava De André, con il sapore sacrale di un cristianesimo non corrotto, narrato e appreso tra genti e contrade e deserto e carovane. Ma spesso né in terra né in mare le anime possono volare serene, le affoga il terrore e il buio di notti senza stelle.
L'anima del mondo, cercavano i filosofi, l’arché dove tutto ebbe inizio, quando ancora tutto era uno. Chi vide nell'aria questo principio chi nell'acqua, materia viva e mobile dove ora le anime spesso naufragano e annegano.
Non ti perdere anima mia, resta leggera, lenta, invisibile, resta tra terra e mare, e ambisci al cielo.
A come Assenza, di Maria La Bianca
Le mie parole
Sono la madre delle mie parole
e la figlia da esse generata.
Terra riarsa e non aiuole
da lacrimata vita fecondata
Piano, fate piano che nascono
silenzio di grida suadenti.
Piano, fate piano che dormono
bisbiglio di nenie assordanti.
Piano, fate piano che crescono
fragore di voci pazienti.
Piano, fate piano che muoiono
litania di eco pressanti.
Nascono
inopportuna presenza.
Dormono
provvidenziale mancanza.
Crescono
ridondante esistenza.
Muoiono
insostenibile assenza.
Sono l’attesa delle mie parole
E la cornice da esse delineata.
Pagina bianca senza sole
da troppe note scure sverginata.
(Maria La Bianca)
La parola è assenza, anzi, assenze. E mi tocca chiamare all'appello tutte le assenze senza una giustificazione che non sia egoismo, indifferenza, opportunismo, convenienza. Nell'assenza ci sono mancanze, vuoti come le assenze nei banchi di una scuola. L'assenza salta agli occhi e recupera la mancanza nel volto, nel nome, nella memoria di un gesto. Me la ricordo un’assenza e mi ricordo il suo nome e il suo volto. Sicily si chiamava. Dovrebbe avere trentatré anni, adesso. Era alta, la più alta della classe, si muoveva con grazia e scriveva racconti. Era nata in un’isola più lontana di quella di cui portava il nome e che l’aveva accolta. In realtà il suo vero nome era più lungo e quasi impronunciabile dai suoi compagni italiani. Anche lei parlava italiano, aveva imparato in fretta, e, cosa ancor più sorprendente per la sua età, scriveva in italiano racconti che parlavano di viaggi in fantastiche terre lontane. Veniva a scuola ogni giorno. Sedeva al suo banco accanto alla compagna, alzava la mano per parlare e sorrideva sempre. Una bellissima e alta bambina studiosa dello Sri Lanka che voleva diventare italiana e andare all’università. Poi un giorno, poco prima della fine della scuola e degli esami di quinta elementare, il suo banco è rimasto vuoto. E anche il giorno seguente. Le assenze nel registro sono diventate una lunga serie di a senza risposta. L’ho cercata, Sicily. Il telefono squillava a vuoto. Sono andata a bussare alla porta della sua casa. Non ha risposto nessuno. Una vicina si è affacciata sulla strada. Sono partiti in fretta una mattina presto, mi ha detto, la mamma con la figlia. Il papà non lo vediamo già da un po’. Non so dove sia andata, Sicilynawathy detta Sicily e non ricordo il suo cognome. Non so dove sia ora. Di molti dei suoi compagni e delle sue compagne ho ancora notizie, di molti ho seguito la crescita e conosco la storia. Lei la immagino diventata donna e tremo al pensiero di quale possa essere oggi la sua vita. Avrà portato con sé i quaderni con i suoi racconti? Avrà continuato a scrivere? Di quella assenza ancora mi tormenta la mancanza di risposte. Si sarebbe potuto fare qualcosa per trovarla? Si poteva prevenire quella fuga? Stava diventando grande, Sicily. Troppo grande e bella per una bambina dello Sri Lanka che scriveva racconti in Italiano e voleva continuare a studiare. L’anno dopo c’era ancora il suo nome nel registro della nuova quinta: il sistema l’aveva bocciata per abbandono. Quel nome accanto a cui continuava a crescere una lunga serie di assenze segnava più di una mancanza, non solo la sua. Ancora oggi certe assenze dovrebbero mancare, come ciò che ritenevamo acquisito e ci viene tolto. L'assenza di un nome, di un'immagine esatta in cui riconoscerci, di un ruolo che ci qualifichi di fronte all'altro, tutte cose che, nel pensarci presenti, diamo per contate. Come a scuola, dovremmo andare a cercare gli e le assenti, vedere tutte le mancanze che le hanno resi tali e colmare quei posti vuoti con la condivisione di tutti quei diritti necessari al reciproco riconoscimento. Non dovremmo darci pace per tutte le assenze che infliggiamo agli altri per accaparrarci uno spazio di vuota visibilità. Perché è nella presenza dell'altro che le assenze ci offrono l'opportunità del nostro pieno. Il mio è rimasto nella memoria di una bambina con i capelli lunghi che legge ad alta voce un racconto ai suoi compagni. La parola è assenza e tutte le altre che non la comprendono.
A come Amata, di Giusy Ferlisi Chesari
L'amata! E se ne va in giro Rallegrata, Deliziata, dopo che L' Amato le ha visitato in segreto, in disparte il cuore... E tutti incanta con Il Suo Stupore, con La Femminilità Grembo dell’Amore e tutti cura, solleva, incanta, guarisce nell' intimo del cuore con la Bellezza che non ha parole, con il suo sguardo Innamorato, Riflesso Limpido e Beato dell'Amato Suo che glielo ha impresso sulle pupille e sul cuore...
A come ARRAGGIATA, di Licia e Jose Chiarini (sorelle)
“Arraggiata” una parola alla quale fin da ragazzine avevamo prestato una particolare attenzione perché la sentivamo attribuire alle donne tutte le volte che queste manifestavano un disappunto, una ribellione una contestazione a qualcosa che il potere maschilista voleva imporre indiscriminatamente ARRAGIATA
“Arraggiata” una parola alla quale fin da ragazzine avevamo prestato una particolare attenzione perché la sentivamo attribuire alle donne tutte le volte che queste manifestavano un disappunto, una ribellione una contestazione a qualcosa che il potere maschilista voleva imporre indiscriminatamente.
Diveniva così facile attribuirlo alle adolescenti per il sopravvenuto ciclo mestruale e alle donne in genere quando si voleva alludere all'assenza del sesso laddove rinnegato per svariati motivi.
Crediamo che questi pregiudizi scavano nell'intimo di ogni donna, all'ora come oggi, offese gratuite e vessazioni psicologiche pesanti.
A come Armonia, di Ornella Papitto
Due esperienze preziose:
- Una persona sfiduciata, scoraggiata e che non stimava sé stessa sembrava che si comportasse male nei miei riguardi per allontanarmi, respingermi in modo da confermare ciò che essa pensava di sé. Ho spiegato che non sarà mai lei a stabilire per me cosa io dovessi fare e si sarebbe potuta comportare malissimo, ma spettava a me decidere se abbandonare, mollare la presa della relazione o continuare a rinforzare la relazione. Ero soggetto attivo e non "oggetto sul quale transita l'azione" in relazione asimmetrica. Dovevo tirarla su dal fosso, senza mollare. La relazione costruttiva deve essere sempre tra due soggetti, in relazione simmetrica.
- Un'altra persona aveva un'alta considerazione di sé e metteva alla prova la resilienza e la resistenza al disprezzo, alla prepotenza, all'umiliazione, alla mortificazione per rifiutarla e respingerla ma senza potersi liberare autonomamente, certa che l'altra persona non sarebbe mai stata alla sua altezza e quindi si doveva sottomettere e diventare "oggetto sul quale transita l'azione" e così accettare una relazione asimmetrica. Anche in questo caso non è stata l'altra persona a scegliere per me. Sapevo che dovevo usare le mie energie per farla scendere dal piedistallo, dall'alto della sua superbia al piano di realtà.
Ho accettato e non rifiutato o respinto le due esperienze e non solo, le ho accolte nella sua fragilità, il primo caso, e nella sua debolezza, il secondo caso.
Ho abbracciato.
Sono sempre io che ho deciso se costruire una relazione simmetrica.
Se mi rendo conto che non ci sono i margini o che le persone non meritano il mio impegno, lascio correre, lascio perdere, lascio andare, lascio l'altro al proprio destino.
Libero me e libero l'altro, ma se riesco a costruire la relazione simmetrica siamo entrambi liberi di restare o di andare ognuno nella propria direzione.
'Proporzione inversa?'
Il peso del segno uguale (=) ossia del soggetto.
Fonte: condivisione con chi mi fa illuminare per la felicità per la costruzione delle relazioni umane.
Se mi compiacessi con me stessa sarei superba, invece se gioisco con chi non posso vedere perché è arrivata un'illuminazione, allora mi sento grata alla natura, allo spirito che alberghiamo in noi, alla fiducia, alla compassione, al confidare nella speranza di una costruzione umana solida e solidale.
B come Batuque, di Irene Fornaia
La mia parola la lascio raccontare alla musica, al suono, ad una parola che risuona.
Batuque cos’è? É una religione africana portata dagli schiavi africani, nella "nuova" terra, terra che ovviamente non era nuova, stava già lì. Queste persone, queste comunità, hanno poi contribuito a de -nominare questa terra Brasile, attraverso la lotta, per l'autodeterminazione e la resistenza, che continua ancora oggi.
Ma il Batuque non è solo una religione, il Batuque esprime un insieme di pratiche culturali, religiose, musicali. Batuque è il rito, il ritmo, la danza, lo strumento.
Uno strumento musicale e uno strumento di lotta. Parlare di lotta nel contesto della costruzione di un dizionario della pace può sembrare una contraddizione, ma parliamo di una lotta necessaria alla pace, una lotta non armata.
Per arrivare alla pace dobbiamo infatti essere capaci di esprimerci nel nostro genere, nella nostra cultura e religione. E purtroppo viviamo in una società che ci silenzia, così come venivano silenziate le comunità di schiavi africani portati in quel " nuovo" mondo. E in una società che ci silenzia come donne, come cittadini, come migranti, il BATUQUE rompe questo silenzio. E può essere attraverso una musica, il battito, il calpestare la terra con i piedi con forza, ma a tempo, che si può arrivare a manifestare la propria libertà e rendersi liberi.
Quindi il batuque, inteso come pratica culturale nel suo insieme, si eleva a molto più di una manifestazione culturale, molto più di una "performance" musicale, ma diventa resistenza, e ad esempio il Pandeiro (tamburo tipico) diventa un mediatore culturale.
Dal batuque vengono anche fuori alcuni dei simboli nazionali del Brasile come il samba e la capoerira.
Il Batuque è stato censurato per secoli, anche successivamente alla abolizione della schiavitù del 1888 in brasile. Il Batuque, il samba, la copeira, e altre manifestazioni caratterizzate dal ritmo, dal battito dei piedi sul terreiro, dal battito delle mani sul Pandeiro, sono per secoli state criminalizzate e represse dalla società egemonica bianca e dalla polizia. Ma è attraverso la musica sono arrivate fino ad oggi, in questa resistenza perpetua, nella trasmissione dei suoni e dei riti, da generazione in generazione. Da bisnonne a nonne, da nonne a mamme, da mamme in figlie. E parlo al femminile sia in riferimento a una esemplare poesia di Conceição Evaristo (*) sia perché in questo processo, le donne hanno un ruolo fondamentale. È stato nei terreiro delle donne baiane che si sono potute mantenere vive queste tradizioni e di conseguenza garantire una lotta per l'identità di tante comunità. Nella casa della Tia Ciata, donna baiana afrodsicendente emigrata a Rio de Janeiro, è nato il samba, che oggi noi consumiamo come un prodotto nel panorama musicale internazionale.
Le figure femminili sono infatti fondamentali in questa lotta incarnando al contempo anche la lotta di donne in una società maschilista, come Dona Ivone Lara che ha composto alcuni tra i primi samba ma che era stata avvertita "pra pisar nesse chão divagarinho" (calpestare il terreno piano piano).
In conclusione, il Batuque è resistenza democratica dove il conflitto è musicalizzato, dove nel conflitto vince il ritmo, vince il Batuque.
Diventa una forma di Attivismo politico che dà voce a una porzione della società che è generalmente marginalizzata nel processo di democratizzazione.
Batuque letteralmente la parola in brasiliano esprime tante cose, è la religione, è il culto, è la danza, è il ritmo, è lo strumento musicale.
Attraverso la musica e il linguaggio musicale si parla di pace, resistenza e identità. Il Batuque rompe, risuonando, il silenzio di una società che opprime e che censura. il Batuque è lo strumento (musicale e non) che ha permesso, nel corso della storia e per secoli, alle voci delle comunità afrobrasiliane di affermare la propria identità, di resistere, di esistere. Diventa attivismo politico in musica e porta avanti un processo di democratizzazione per le comunità marginalizzate. Il Batuque dà anche voce alle donne, che hanno un ruolo fondamentale in questo processo, nel tramandare tradizioni e renderle vive fino ad oggi, permettendo a tantissime altre donne di affermarsi come donne e cittadine con la propria, religione, cultura, storia e identità.
B come Bellezza, di Antonia Castello
Nel romanzo “L’idiota” dello scrittore russo Fedor Dostoevskij il protagonista pronuncia una frase che porta a una riflessione istantanea: “La bellezza salverà il mondo” (cfr. F. Dostoevskij, L’idiota, Firenze 1869). La ricerca del ‘Bello’, nella sua virtù più elevata, è sempre stata un itinerario di avvicinamento al divino, come ha scritto il teologo H. U. von Balthasar: “[…] La nostra parola iniziale si chiama bellezza […]” egli, infatti, ha ripercorso la via della bellezza come forma della rivelazione dell’amore trinitario (cfr. H. U. von Balthasar, Gloria. Un’estetica teologica, Jaca Book, Milano 1985). A Platone fu chiesto: “Cosa fa Dio?”. E lui rispose: “Applica le regole della geometria all’universo!”. Tutto questo ci riporta a un’idea di bellezza legata all’ordine e all’armonia. Il caos non può essere bellezza, perché non svela la verità. In ambito biblico la bellezza è inserita nell'orizzonte della fede in Dio come fonte e modello di ogni splendore. Lo spazio dato alla bellezza nell’Antico Testamento non riguarda tanto le forme pittoriche o architettoniche (ad eccezione del tempio), quanto la creazione, l'essere umano e in particolare alcune figure in cui la bellezza fisica si coniuga con la bellezza morale. È la bellezza di cui ha scritto Giovanni Paolo II nella Lettera agli artisti affermando: “Nel rilevare che quanto aveva creato era cosa buona, Dio vide anche che era cosa bella. […] La bellezza è in un certo senso l’espressione visibile del bene, come il bene è la condizione metafisica della bellezza.” (cfr. Giovanni Paolo II, Lettera agli artisti, 4 aprile 1999, 3). La Bibbia testimonia ampiamente lo stupore dell’uomo dinanzi al fascino della Bellezza di Dio, che supera ogni bellezza umana; si parla anzitutto della bellezza degli elementi del creato, che rimanda a quella del Creatore. Bello e buono coincidono, la parola ebraica tôb (tradotta indifferentemente con le parole greche kalòs e agathòs, bello e buono [cfr. Lc 6, 27.35]) designa primitivamente le persone o gli oggetti che provocano sensazioni piacevoli o l'euforia di tutto l'essere: un buon pasto (cfr. Gdc 19, 6-9; 1 Re 21, 7; Rt 3, 7), una bella ragazza (cfr. Est 1, 11), persone benefiche (cfr. Gen 40, 14), tutto ciò che procura la felicità o facilita la vita nell'ordine fisico o psicologico (cfr. Dt 30, 15). La bellezza è anche la tenerezza dei sentimenti, la verità, ma è soprattutto espressione della santità divina (cfr. Sal 25, 8), perché è Dio la bellezza-bontà sperimentabile quasi in modo sensoriale: “Assaporate e gustate quanto è buono (bello) Jhwh” (Sal 27, 13). Tutte le opere della creazione di Dio sono buone (belle): “Dio vide tutto quello che aveva fatto ed ecco era molto buono” (Gen 1, 31). La bellezza del Creatore emerge soprattutto nell’uomo, creato a sua immagine e somiglianza (cfr. Gen 1, 26-27); ne riflette meglio il suo splendore, la sua gloria e la sua grandezza (cfr. Sal 8). Tale bellezza si manifesta soprattutto attraverso i personaggi che hanno avuto un ruolo particolare nel piano salvifico di Dio e sono più vicini al Suo cuore. I personaggi biblici che hanno grandi qualità morali e spirituali sono sempre presentati con la caratteristica della bellezza fisica. Nella Parola che si fa carne risiede la bellezza del Vangelo. Questa Parola non è qualcosa di teorico, ma è la persona concreta di Gesù Cristo, per mezzo del quale viene a noi la pienezza del dono. Icona della trasfigurazione della bellezza terrena è Maria di Nazareth, la giovane e umile donna totalmente protesa all’accoglienza della bellezza divina. Maria non è un mito, non è un’astrazione, ma una donna concreta che è vissuta nella società ebraica. E’ questa concreta femminilità che rivela la bellezza dell’Eterno, è l’incontro tra la bellezza terrena e quella divina. La Vergine Madre figlia del suo Figlio, coperta dall’ombra dello Spirito (cfr. Lc 1, 35), diventa la dimora santa del Verbo di Dio fra gli uomini. Maria è l’icona della Bellezza trinitaria, è “il santuario e il riposo della Santissima Trinità” (cfr. San Luigi Maria Grignion de Monfort, Trattato della vera devozione alla Santa Vergine 1843.), è il grembo della Bellezza divina (cfr. H. U. von Balthasar, Gloria. Un’estetica teologica, Jaca Book, Milano 1985.). In Maria tota pulchra, la Donna Bella secondo il piano salvifico di Dio, si rende presente in modo eminente l’esistenza umana redenta, protesa alla contemplazione del Bello Assoluto. Oggi più che mai il genere umano dovrebbe rispecchiarsi in Maria che continua a testimoniare e trasmettere il Bello Assoluto; oggi più che mai Maria ci invita ad imitarla raccogliendo ogni lacrima, ogni grido..., ogni disperazione con la quale veniamo in contatto; ci chiama a riviverla per dare amore, per “liberare i cuori dall’odio”, come ha detto Papa Francesco, ed essere dappertutto semi di bellezza e speranza per il mondo intero (cfr. Papa Francesco, La Civiltà Cattolica, Quaderno 4135, p. 3-9, Anno 2022, vol. IV, 1° ottobre 2022). Quale bellezza salverà il mondo? Il card. Carlo Maria Martini, nell’introduzione della lettera pastorale che porta il medesimo titolo, ricorda che l’oggi ci presenta l’urgente necessità di trovare icone e parole per dire la bellezza del Vangelo e per accompagnare, in questo tempo difficile, l’uomo nella sua ricerca di Dio: “E' un tentativo di interpretare la crisi del nostro tempo, dicendo che là dove verità e giustizia non sembrano più reggere, forse l'appello della bellezza può aiutare a ripensare questo insieme di verità, bontà e giustizia che appartiene appunto alla pienezza del mistero trascendente rivelato.” (cfr. Carlo Maria Martini, Quale bellezza salverà il mondo?, 8 settembre 1999).
C come Coraggio, Gruppo giovanile della parrocchia Santa Maria Assunta - Cernusco sul Naviglio dell’Arcidiocesi di Milano
Il nostro gruppo ha scelto la parola "Coraggio", perché è la prima che istintivamente ci è venuta in mente pensando alle lotte senza sosta e senza rinuncia delle donne del passato e del presente. È una qualità che le donne dimostrano quotidianamente in molteplici aspetti della loro vita: dalla capacità di affrontare e superare le sfide personali e professionali in una società che non le facilita, alla forza interiore necessaria per sostenere le proprie famiglie e la comunità. Esse combattono con coraggio contro le ingiustizie, difendono i propri diritti e quelli degli altri, e mostrano una resilienza incrollabile di fronte alle avversità. Il coraggio è intrinsecamente legato alla loro determinazione, alla loro passione e alla loro capacità di trasformare le difficoltà in opportunità.
C come Cura, di Rosalia Tarantino
È una parola antica, eppure viva e moderna, carica di significati e di sfumature. È di derivazione latina - l’etimologia è incerta, forse da una radice indoeuropea il cui significato è “guardare con attenzione” - e in latino significa “pensiero per qualcosa o qualcuno, sollecitudine, interesse, ma anche inquietudine, affanno. In italiano i suoi significati sono fondamentalmente: a) Interessamento sollecito e costante per persona o cosa che ha bisogno di particolare attenzione e premure. b) Accuratezza, diligenza nel fare qualcosa. c) Insieme di medicamenti e rimedi per il trattamento di una malattia. Questa disamina dei significati ci permette di evidenziare: a) La cura non è attenzione fugace, superficiale, non è interessamento temporaneo. b) La cura è partecipazione, comunicazione, empatia. Cura è azione prolungata nel tempo ed anche intensa e assidua nei confronti delle creature che presentano dei bisogni insoddisfatti. La cura è un aspetto universale della vita umana. Sono le condizioni in cui ciascun essere umano viene a trovarsi durante il corso dell’esistenza a renderla tale. Si pensi ai bambini che non possono prendersi cura di sé stessi da soli, alle persone anziane che perdono progressivamente autonomia, a chi è colpito da malattia o disabilità in modo permanente e no. In fondo, per un verso o per un altro, prima o dopo, tutti necessitiamo di cura. Tutti hanno bisogno di ricevere cura e di aver cura, perché l’esistenza nella sua essenza è cura dell’esistente nelle varie fasi della sua espressione”: senza relazioni di cura nutrite con attenzione la vita umana non potrebbe realizzarsi nella sua pienezza” (Groenhout, 2004, p.24). Ricevere cura significa essere accolti dagli altri nel mondo, aver cura significa coltivare quel tessuto dinamico e complesso di relazioni in cui ciascun soggetto riconosce la radice vivente del proprio essere nel mondo. (L.Mortari, La pratica dell’aver cura, 2006). La nostra società non sa riconoscere pienamente il valore delle pratiche di cura: il successo e l’efficienza, soprattutto, occupano un posto fondamentale nella scala dei valori: tutto ciò che ha bisogno di tempo e risorse per essere “riparato” viene velocemente lasciato ai margini della società. Ma cosa ha portato alla svalorizzazione della cura nonostante la percezione della sua importanza? I motivi sono molteplici e di vari ordini. L’ipotesi di Bubeck, una delle più complete, attribuisce il fenomeno alla associazione fra cura e attività femminili, a lungo svalutate e non adeguatamente retribuite. Insomma, sono state le donne a subire il carico della “cura “lungo i secoli, rinunciando al proprio lavoro, collocandosi in situazione di estrema vulnerabilità e fragilità sociale. Lo scarso riconoscimento simbolico riservato alla cura si può spiegare, quindi, con il fatto che il termine “cura” è associato , se non identificato, con l’universo femminile e il femminile è stato a lungo, e per certi aspetti lo è ancora, soggetto a una pesante svalorizzazione(L. Mortari). “Siamo cresciuti in tanti aspetti ma siamo analfabeti nell’accompagnare, curare e sostenere i più fragili e deboli delle nostre società sviluppate” afferma Papa Francesco nella Fratelli tutti ( par.64). Abbiamo compiuto grandi passi nell’ambito del progresso tecnologico ma non abbiamo imparato il linguaggio del prendersi cura gli uni degli altri. Forse sappiamo farlo all’interno della famiglia, ma non a livello più ampio, sociale. Per il Papa la cura è l’espressione concreta dell’amore, che è amore fraterno e universale (che riguarda non solo gli esseri umani, ma tutte le creature); che è amore civile inteso non solo come relazione fra individui ma anche come macro-relazioni, rapporti sociali, economici, politici); che è amore sociale quindi non riguarda solo i piccoli gesti quotidiani di cura, ma anche le grandi strategie che arrestino il degrado ambientale (cura della casa comune è il sottotitolo dell’enciclica Laudato si’)e incoraggino una CULTURA DELLA CURA che impegni tutta la società e le politiche formative Insomma, per imparare l’alfabeto della cura dobbiamo imparare TUTTI, fin da piccoli, perché il senso della vita si trova prendendosi cura del proprio spazio vitale, che comprende le relazioni con gli altri e con il mondo, nonché il proprio universo interiore, cioè l’essere e il sentirsi più umani.
D come Dissenso, di Alice Laudamo
Il termine "dissenso" emerge come una parola carica di significato e potenza. Sebbene possa essere interpretato come una divergenza di opinioni o un confronto di idee, il concetto di dissenso assume un valore particolare quando visto attraverso la lente delle donne e delle loro lotte storiche e contemporanee.
Il dissenso delle donne non è solo una voce di protesta, ma anche un'azione di resistenza contro le ingiustizie, le discriminazioni e le oppressioni. È il coraggio di alzare la propria voce quando il silenzio sembra più facile, è l'audacia di sfidare le norme sociali obsolete e le strutture di potere patriarcali. Dal dissenso nasce la disobbedienza come arma per costruire strade verso una liberazione consapevole che la vera emancipazione o è di tutte o non lo è.
Le donne hanno sempre sperimentato forme di dissenso; la prima fu proprio Eva. Durante il periodo della monacazione forzata, ritroviamo l’esempio di Anna Valdina (palermitana; dal 11648 al 1699 suora) rinchiusa a 7 anni forzatamente. Ella utilizzò il diritto a suo favore instaurando un processo atto a dimostrare la nullità dei suoi voti e dissentire al vecchio volere del padre, don Andrea Marchese della Rocca. Dai movimenti per i diritti civili alle lotte femministe, il dissenso femminile ha contribuito a plasmare la storia, a promuovere il cambiamento sociale e a diffondere la consapevolezza sulla necessità di una maggiore equità di genere.
Oggi, il dissenso delle donne continua a manifestarsi in molteplici forme: dalle proteste di massa alle piattaforme digitali, dalle opere d'arte alle narrazioni personali. È attraverso il dissenso che le donne affermano la propria dignità, rivendicano i propri diritti e si oppongono alle violenze e alle discriminazioni.
Tuttavia, è importante sottolineare che il dissenso delle donne non è monolitico. Le esperienze delle donne sono plasmate da molteplici identità e appartenenze culturali, etniche, sessuali ed economiche. Pertanto, un approccio intersezionale al concetto di dissenso è essenziale per comprendere appieno la complessità delle lotte delle donne e garantire che tutte le voci siano ascoltate e valorizzate.
In conclusione, il dissenso delle donne rappresenta una fonte di forza e libertà. È un'incrollabile testimonianza della resilienza e della determinazione delle donne nel perseguire un mondo più giusto ed inclusivo per tutte e tutti.
D come Dolore, di Anna Pia Viola
È difficile parlare del dolore non solo perché le parole non riescono a coglierne l’essenza, ma soprattutto perché è attraverso di esso che forgiamo il nostro dire e impariamo a vivere. Se non ci sono parole adeguate a descriverlo possiamo, tuttavia, cogliere nei verbi “sentire” ed “accogliere” la sua fecondità. Il dolore, infatti, si sente, si prova addosso; il dolore è espressione della vita che scorre e che lotta per affermare la presenza. Dolore è il grido contro un male ricevuto. Pur non essendo e non avendo nulla di ‘male’, il dolore può essere sorgente di rabbia e di ulteriore sofferenza. Per questo motivo il dolore va sentito nel senso di essere ascoltato e accolto. Il dolore dà la misura di ciò che ci appartiene e a cui siamo legati; è segno dell’aderenza alle cose che dobbiamo accettare di lasciare andare. Ogni essere vivente, toccato e ferito in ciò che gli appartiene, reagisce ribellandosi, gridando la propria rabbia. Ma c’è anche un altro modo di vivere ed è quello di accogliere e adattarsi a quel dolore che consente alla vita di andare avanti. È come il taglio sapiente dell’agricoltore su un albero o una pianta: tagliare produce sì dolore, è una ferita che interrompe per un aspetto il fluire della linfa vitale, ma è un taglio che serve allo sviluppo armonioso e duraturo della pianta stessa. Sentire dolore è partecipazione al ritmo della vita che in sé dice ‘lasciare fare e lasciare andare’. Se il dolore proviene dalla perdita di ciò che ci ha nutrito, sostenuto e allietato, sappiamo che dobbiamo farne i conti e accoglierne la presenza senza fermarci. Secondo la sensibilità femminile, perdere non è fallire, sentire dolore è vivere, e accoglierlo consente ancora di generare vita. Non si può impedire di sentire il dolore, ma si può impedire di trasformarlo in violenza. Se il dolore si sente e si soffre nella misura in cui ne siamo consapevoli, la violenza, al contrario, è un atto di forza volto a procurare morte; è, dunque, il male che va arginato, va contenuto, magari assimilato, assorbito, affinché non si propaghi. Accettare il male è l’unico modo per non giustificare il dolore che produce. Accettare non significa fare delle concessioni al male, ma arginarlo per non riempire il nostro cuore di odio. Il male non ha alcun fine, rende però cattivi. Il dolore consapevole è invece un sentire la vita con la gravità e la delicatezza della crescita. Il dolore accettato dona vita, sempre e anche lontano da noi, come il corso d’acqua che inabissandosi sotto terra produce già il bene che porta riemergendo da un’altra parte e lasciando la sua fecondità nel tragitto percorso. La forza e la violenza hanno una visibilità che può essere arginata con il linguaggio opposto della passività e della accoglienza. Dobbiamo lottare contro il dolore, cercare di ridurlo e contenerlo, ma soprattutto dobbiamo trasformarlo in sorgente di vita e non di morte.
D come Donna, di Paola Pecora
Donna "sentire delicato e profondo ". Donna " portatrice d' amore e protezione "
Donna "simbolo di speranza". Maria Madre di Gesù: esempio di un atto di fede, ma anche un gesto rivoluzionario.
Lei per prima accolse Dio in sé, e lo fece per libera scelta, accettando il destino che era stato stabilito per lei e per Suo Figlio.
Madre Teresa di Calcutta: esempio di carità e totale devozione a Dio e all' intera umanità.
Una piccola donna, una piccola suora, che col suo immenso cuore, con la sua misericordia sconfinata per i più poveri.
La donna nella storia del cristianesimo ha ricoperto diversi ruoli: cura della salute, l'educazione e l'attività missionaria.
Le donne laiche sono state molte attive nella vita delle chiese, supportando le comunità delle parrocchie.
Nei Vangeli Gesù è vicino ai più deboli come bambini, lebbrosi e donne.
Con queste ultime Gesù si comporta in modo liberale: difende una prostituta dal linciaggio, perla di religione con una samaritana (cioè una reietta, secondo le concezioni ebraiche), permette a una malata (l'emorroissa) di toccarlo e la guarisce per la sua fede.
Infine, Gesù risorto si rivela per primo a due donne.
La donna nell’ambito di una comunità ha un sentire spirituale di portatrice d' amore e accoglienza sensibile e spirituale, come una mamma che offre protezione delicata e profonda. “Che Dio ci dia il Coraggio delle Donne”.
D come dialogo - Donne in dialogo in un contesto diasporico. La cultura dell’identità della donna musulmana in Italia. Di Theseen Nisar Hussain
Penso che la questione dell’identità sia abbastanza centrale nel tema della cultura rappresenta e modella le identità. Questo specialmente succede quando iniziamo a parlare e a vivere l’identità in una cultura diversa dalla nostra origine. Questo tema oggi della donna in un contesto relativamente complesso della realtà moderna pone delle sfide che riguardano degli aspetti di religione, inclusione, pluralismo e multiculturalismo. La spiritualità è il contesto ampio di una credenza in qualcosa aldilà del sé e può coinvolgere tradizioni religiose, corrispondenti alla credenza olistica in una connessione individuale con tutti gli altri e con il mondo nel suo insieme.
D come Disorientamento di Noemi Casella
È una parola composita composta dall’unione di due parole che sono dis e orientare. Nella lingua italiana, il prefisso, nominale o verbale, latino dis significa separazione. Disorientamento, dunque, indica la separazione di una persona dall’orientamento, da un obiettivo, da una mèta.
Io bambina mi sentii disorientata, quando qualcuno violò il mio corpo.
Io ragazza mi sentii disorientata quando qualcuno per strada, senza richiesta o consenso, fece degli apprezzamenti fisici sul mio corpo.
Io donna mi sentii disorientata, nel momento in cui, mi resi conto che l’uomo che amavo mi stava soggiogando.
Disorientamento e nulla più. Forse questo è il tragico destino a cui, quotidianamente, io donna sono costretta a vivere, separata dalla speranza di una mèta luminosa.
Ma se la parola disorientamento la scompongo ancora in dis, orienta e mento, si presenta non soltanto un prefisso, ma c’è anche un suffisso, dal latino mentum. Mento è una parola presente in molti vocaboli ad esempio aborrimento, abbindolamento, imprigionamento, accoltellamento, adattamento, patimento, strumento e ancora sgomento. Sono tutte parole il cui semplice ascolto provocano perturbamento e soprattutto disorientamento. Ma ci sono tante altre parole come fiorimento, movimento, fermento, apprendimento, miglioramento, accompagnamento e ancora sentimento.
Io come Rosalia però vorrei poter proseguire verso la mia mèta, vorrei che la bussola che mi aiuti ad orientarmi sia il sentimento, un sentire l’amore verso la propria vita di donna libera.
E come Energia, di Annamaria Carobella
Quella che nasce dentro a noi donne quando vediamo ingiustizia e violenza intorno a noi,
quella forza travolgente che non permette per nessuna ragione al mondo di abbatterci, ma ci fa trovare una via, una soluzione.
Energia, quella che mette in moto le qualità positive dentro ciascuna soprattutto quando c’è da lottare per il bene dei nostri figli,
dei nostri giovani, dei nostri vecchi, per abbattere barriere e vincere la solitudine e l’egoismo.
E come Empatia, di Miriana Dante
Dal greco antico "εμπάθεια" (empátheia), en-, "dentro", e pathos, "sofferenza o sentimento", l’empatia è un termine che a suo tempo veniva usato durante gli spettacoli teatrali per indicare la speciale relazione di comprensione profonda che legava l'attore al pubblico.
Ad oggi significa mettersi nelle scarpe dell’altro, o ancora vedere le cose con gli occhi di un’altra persona. Una delle maniere più belle per descrivere l’empatia è proprio attraverso le metafore, perché è un concetto del tutto astratto e poetico, ma anche profondamente vero.
Cosa c’entra l’empatia con le donne? È una delle caratteristiche che più si associano al femminile, perché le donne da sempre si “prendono cura”, e per prendersi cura serve comprendere a fondo le sofferenze “pathos” degli altri esseri viventi, ma anche della terra. Eppure, l’empatia è, utilizzando ancora una volta una metafora anche abbastanza comune, una moneta con una doppia faccia. Nobilissima da un lato, genderizzata e pericolosa dall’altro. Le donne nascono e l’empatia viene loro assegnata come un tratto caratterizzante del proprio essere, dimenticandosi che è un sentimento umano proprio di tutti, e proprio perché di tutti, andrebbe coltivato al di là dell’essere donna. Non sempre, purtroppo, è così. Così accade spesso che le donne diventino, volenti o meno, l’altro lato della medaglia, coloro assegnatarie dell’oneroso compito di costruire il tessuto sociale, dimenticandosi quanto loro non siano solo vittime o esseri accudenti. Le donne possono essere dure, le donne possono essere forti, e gli uomini possono essere empatici. Finché l’empatia non sarà propria di tutti, ci saranno sempre donne che accudiranno e uomini che faranno la guerra.
F come Forza, dei giovani dell’Unità Pastorale Giovanile di Cernusco sul Naviglio Milano
Una delle parole che meglio descrive la donna è “forza”. La donna è chiamata a essere forte in numerose situazioni. Per esempio, ritroviamo la donna nel suo ruolo di madre: spesso deve essere forte anche per i suoi figli. Le mamme, infatti, mettono gli altri prima di sé, per esempio portando avanti la famiglia anche in situazioni difficili. Un esempio concreto sono le mamme del quartiere ZEN di Palermo, che nonostante le difficoltà della realtà in cui vivono sono forti ogni giorno per sostenere e proteggere i propri figli. La stessa protezione e lo stesso amore per il figlio ha spinto Felicia Impastato a combattere per difendere il nome e la memoria del figlio Peppino ucciso dalla mafia. Inoltre, le donne sono spesso costrette a scegliere tra i figli e la carriera, perché molte volte il contesto scoraggia il proseguimento di una carriera lavorativa quando una donna ha dei figli. In numerosi casi, tra l’altro, durante i colloqui di lavoro viene posta la domanda: “Vorrai avere figli in futuro?” e la risposta è determinante per l’assunzione. Un’altra difficoltà in ambito lavorativo è trovarsi in un ambiente che non tutela la donna, precludendole il raggiungimento di posizioni importanti generalmente occupate da uomini e non consentendole di guadagnare tanto quanto un uomo. Quindi la donna deve combattere per i propri diritti: si pensi ad esempio all’ambito politico, le lotte per il voto, o all’ambito sportivo, in cui viene data minore importanza alle competizioni femminili. Ci vuole forza per combattere in questi campi, e alcune donne ne hanno avuta tanta da riuscire a farsi valere in un mondo governato principalmente da uomini. Esempi di ciò sono state Giovanna d’Arco e Cleopatra. Infine, la forza delle donne non si limita ad ambiti più specifici come la politica o il lavoro ma si estende nella vita di tutti i giorni e nei momenti che dovrebbero essere liberi, sereni, sicuri, come l’uscire di casa o il vivere con il proprio fidanzato, compagno o marito. Nel primo caso, ci riferiamo al catcalling, allo stalking o alla paura di ricevere una qualsiasi molestia verbale o fisica. Nel secondo caso, si tratta di violenza domestica, di abusi verbali o fisici o addirittura di femminicidi, purtroppo molto frequenti. In conclusione, con la parola forza si può descrivere la donna in tutte le sue sfaccettature, è una parola che l’ha accompagnata nella storia e la rappresenta ancora oggi, sia in negativo che in positivo.
F come Forza, di Cinzia Mantegna
La forza dirompente della donna inizia dal suo primo incontro con il mondo, generata dalla potenza amorevole di un’altra donna, sua madre. Non c'è forza e potere più grande nella generatività che non si limita solo a quel momento gioioso e doloroso d'amore. Di madre in madre, da donna a donna, da madre in figlia si tramandano comportamenti, modi di fare, codici che parlano di trame, intrecci, legami eterni. La cura, l’attenzione, la tenerezza, il pensiero, la generosità di una donna diviene nella sua ripetizione il modo unico ed esclusivo della sua essenza. La sorellanza che accomuna le donne diviene così un modo semplice, segreto, intimo nel riconoscersi. Non hai bisogno di parole per vivere questa dimensione unica e irripetibile che accomuna le donne. E questa forza parla della potenza della donna capace di fare cose straordinarie. La donna può essere silenzio quando ascolta con comprensione, dedizione, compassione o quando operosa organizza, prepara, accompagna, aiuta, pensa, scrive, intuisce, sostiene, dona. Può essere silenzio quando soffre e subisce la rabbia e la violenza di chi la vuole sottomessa, costretta, muta. Ed allora le si toglie la parola, la voce .Quella voce che spaventa perché è carica di qualcosa di straordinario, irripetibile inimitabile, incomprensibile. La forza della donna.
F come Felicità, di Lucia Lauro e Nadia Lodato
Galleggiare o immergersi?
Oggi ci siamo abituati a sentimenti accettabili, quello che siamo e che proviamo si misura, possiamo raccontarci con oggetti e foto.
La felicità è inaccettabile o, meglio, la si può raccontare online, ma non la si può provare. Ci poniamo obiettivi che non ci espongano troppo, professioni di successo, ma protettive.
Costruiamo sogni realizzabili e rimuoviamo quelli notturni. Tutto per far bene il nostro compitino di consumatori, un tempo esseri umani.
La felicità è pericolosa perché ha in sé il suo rovescio, e cioè il dolore. E nella società del benessere, si sa, il dolore non è compreso e non è accettabile. Abbiamo cancellato il dolore e quindi rinunciato alla felicità, preferiamo quella sensazione di benessere che ci rende sempre prestanti, magari a volte tristi, ma capaci di relazioni sociali per l’aperitivo e di fare shopping.
La felicità d’altronde è una cosa seria, è quella sensazione a volte fugace di essere esattamente nel posto in cui devi stare, nel posto che le tue cellule riconoscono come il posto per cui sei stato pensato. E’ una sensazione che va cercata, tenuta stretta, che costa fatica e che non può essere illimitata. E’ la pienezza. E’ quel sentimento che in qualche modo sai produrrà anche il dolore. Ma è anche attraverso il dolore che conosciamo noi stessi, ci confrontiamo con alcune parti e scopriamo doti inaspettate.
Quindi non scelgo la felicità nonostante il dolore, scelgo la felicità sapendo che ha una parte di dolore, così come scelgo di vivere e non di sopravvivere, di rischiare e quindi di fallire. Per essere felici bisogna essere coraggiosi, soprattutto in tempi così bui.
F come Fragilità, di Monica Saia
Seppur possa suonare strano, la fragilità, a volte, è lo stato, la condizione propedeutica alla forza di reagire, alla resilienza.
Quando ci troviamo in situazioni di difficoltà siamo più fragili e già stanchi e stressati dai nostri problemi, cerchiamo un sollievo, un aiuto. Ma è proprio dalle nostre fragilità che in noi nasce la forza di rialzarci e di riprendere le redini della nostra vita per raggiungere la destinazione decisa.
In conclusione, quindi, la fragilità non va vista solo da un punto di vista negativo come una debolezza, ma può essere anche letta positivamente e definita come un momento di assestamento in cui la persona ha bisogno di tempo, serenità, tanto amore e tanta speranza per ritrovare il giusto equilibrio.
Possiamo dire dunque che le persone fragili sono semplicemente persone estremamente provate dal dolore che hanno dovuto mettere insieme tutte le loro forze per andare avanti a testa alta e per non essere sconfitti totalmente dal dolore e dai problemi che si presentano. C’è una canzone importante di Paolo Vallesi che dice "quando toccherai il fondo con le dita la riconoscerai la forza della vita " e, secondo me, è questa la forza motrice delle persone fragili.
G come GERARCHIA, di Stefania Macaluso
Le parole nascono tutte leggere, in quanto ali del pensiero. Da bambini impariamo a pronunciarle con gioia. Ci sono parole che restano leggere, affiorano alcune dal cuore, dal sentimento, altre dall’intelligenza, attraversano la vita, ne scandiscono il ritmo, il palpito; esse stesse sono la vita perché danno forma a ciò che sentiamo, a ciò che siamo. E nutrono la vita, perché ci consentono di entrare in relazione con la realtà intorno a noi. Ci sono tuttavia parole “pesanti” che si sono imposte alla storia e la vita l’hanno condizionata, originando strutture rigide, consolidate nel tempo, tanto da incardinare le relazioni umane. La parola “gerarchia” è una di queste. Attraversarla può significare trovare la chiave per smascherare ingiustizie millenarie riguardo alla relazione interpersonale e a tutto ciò che ad essa è interconnesso. Alcune parole pagano il prezzo della loro polisemia, come nel caso della parola gerarchia che riveste sia il significato concettuale di “ordine di funzione”, sia il senso di “scala di potere”. Mentre la prima accezione rispecchia l’organizzazione della realtà tutta, nel suo presentarsi regolata, secondo leggi funzionali al sistema organico del creato, la seconda accezione è l’esito di un elaborato concettuale, espressione di rapporti storicamente determinati da dinamiche sociali regolate dalla legge del più forte. Le parole ci aiutano, dall’infanzia in poi, a venire-in-esistenza: “Chi sono e che spazio occupo nel mondo” è la sintesi del processo di autodeterminazione di ogni singolo individuo. Dobbiamo fare tuttavia i conti con il contesto nel quale ci troviamo-in-esistenza e ricercare lo spazio nel quale situarci in modalità interconnessa, perché questo esige la vita relazionale. La situazione di connessione interpersonale e le parole che ne esprimono i predicati concettuali, cioè la struttura storico-culturale, costituiscono il contesto che rende possibile, e che in ogni caso condiziona, l’autodeterminazione. Più il contesto è democratico e rispettoso della sovranità del singolo, più è lasciato spazio alla sua autodeterminazione. Bisogna tuttavia fare sempre i conti con l’assetto gerarchico che regolamenta il proprio ambiente di vita, dal momento che anche la più avanzata delle democrazie, alla fine, si basa sull’assoggettamento alla legge che, a differenza dei sistemi autoritari, è funzionale all’ordine e non al potere. Considerato che la forma democratica si è attuata solo di recente e solo in alcune aree geografiche, la struttura relazionale storicamente più diffusa nel tempo e nello spazio, corrisponde a quella gerarchico-autoritaria, per cui l’ordine interpersonale assume una struttura graduata; dunque, il “chi fa cosa” risponde ad un’organizzazione piramidale, imposta d’autorità. Le relazioni, da condizioni di reciprocità, risultano così regolate da criteri di forza: da sempre il più forte si arroga il primato sul più debole; sono nate dunque ingiustizie epocali come la schiavitù, il colonialismo, il razzismo, il classismo, ma l’asimmetria relazionale più antica è quella tra l’uomo e la donna. La forza del maschio si è imposta determinando la struttura patriarcale che ha contrassegnato, nel corso dei secoli, la relazione gerarchica uomo-donna. Fin dalle società più antiche, i contesti militari, civili e religiosi hanno privato la parola gerarchia della valenza di semplice funzione ordinatrice imponendole, piuttosto, l’espressione della modalità del potere e della forza che stabiliscono relazioni asimmetriche. In tutti questi ambiti la pratica di forza gerarchizzante ha coinciso con la forza maschile e l’esito è stato l’imposizione della supremazia del maschio sulla donna. Così è accaduto che l’ingiustizia della prevaricazione abbia finito per congelare l’asimmetria in un perpetuarsi di sopraffazione che ha privato l’umanità della ricchezza della differenza di genere, assicurando il privilegio del dominio al maschio, il quale ha così esercitato l’arbitrio della declinazione al maschile di tutto l’apparato socio-culturale, perpetuando un modello che ha finito per costituire il paradigma della cultura stessa. Nel corso dei secoli, le donne, naturalmente portate alla relazione generativa connotata dalla capacità di collocarsi ad altezza di sguardo, piuttosto che aspirare a imporsi per guardare dall’alto in basso, hanno portato e continuano a portare avanti la fatica di porre rapporti di ordine funzionale alla vita e non al potere, modalità che gli uomini, dopo millenni, ancora devono capire, apprendere e praticare. D’altro canto, le donne devono stare in guardia dal lasciarsi sedurre dal paradigma della gerarchia di dominio, restando fedeli piuttosto alla loro forza generatrice a vantaggio dell’apertura alla vita la quale, senza imporsi, semplicemente diviene, al riparo dalle varie forme di forza per la sopraffazione sull’altro, prime fra tutte la guerra.
La parola gerarchìa (ἱεραρχία), stando all’etimologia greca, significa «governo del sacro» secondo una superiorità. Nella vita della comunità dei battezzati e delle battezzate, il “governo” va inteso in ordine alla ministerialità, ciascuno e ciascuna rivestendo un ruolo di servizio in quanto parte dell’unico corpo il cui capo è l’unico sacerdote e signore Gesù Cristo. La chiesa (ἐκκλησία), originata dal sangue e dall’acqua fuoriusciti dal suo costato, è improntata al modello del Maestro che si è fatto servo per il riscatto di tutti e di tutte. Da qui la natura dinamica della dimensione comunitaria, come di un flusso circolare, secondo una vitalità di servizio che stabilisce un ordine funzionale all’unico scopo della sua stessa costituzione, l’annuncio del messaggio "Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo" (Mc1,15) con le sue implicazioni esistenziali. Nulla lascia intravedere, nelle parole e nelle azioni di Gesù, l’introduzione di una struttura relazionale piramidale che autorizzi a riferire alla chiesa la parola gerarchia come rapporto di supremazia-subordinazione[1]. La declinazione della diversità di ruoli è piuttosto di natura ministeriale, cioè fondata sul compito corrispondente al carisma ricevuto da ciascuno e da ciascuna per grazia, nella pari dignità, a vantaggio dell’edificazione dell’intero corpo comunitario. Tale modello relazionale risulta storicamente inedito. La novità implicita nella relazione testimoniata dal Logos trova efficacissima sintesi nell’intuizione folgorante di Paolo: «Tutti voi infatti siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,26-28). La forma comunitaria ecclesiale, dunque, non ha nulla a che vedere con i sistemi verticistici temporali elaborati secondo gradi di potere correlato alla forza normativa.
Nel corso della storia, gerarchia ecclesiale e gerarchia temporale si sono intrecciate, a scapito dell’originalità del modello ministeriale. Il Concilio Vaticano II ha ribadito chiaramente che la differenza di ministeri non dà luogo a gradi: «Sacerdotium autem commune fidelium et sacerdotium ministeriale seu hierarchicum, licet essentia et non gradu tantum differant, ad invicem tamen ordinantur; unum enim et alterum suo peculiari modo de uno Christi sacerdotio participant»[2].
Dobbiamo constatare che la traduzione del documento in lingua italiana, come pure in altre lingue, introduce la congiunzione correlativa “non solo” riferendola a “grado”, cosa che non corrisponde al testo latino[3]: «Il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico, quantunque differiscano essenzialmente e non solo di grado, sono tuttavia ordinati l'uno all'altro, poiché l'uno e l'altro, ognuno a suo proprio modo, partecipano dell'unico sacerdozio di Cristo»[4]. Un tale fraintendimento di significato altera il processo di comprensione della specificità della relazione circolare e generativa di matrice gesuana, rispetto al modello gerarchico. A chiarimento di tale specificità è utile citare il contributo del teologo Severino Dianich: «Questa differenza, secondo il Vaticano II, è «essentia et non gradu» (LG, 10) infatti non è interpretabile secondo lo schema del più e del meno quasi che i ministri della chiesa fossero nella fede e nell’imitazione di Cristo infallibilmente a lui più intimamente congiunti»[5].
È tempo di focalizzare correttamente il valore di una sinodalità che veda la differenza tra generi, classi, ministeri, non secondo la ponderazione umana, ma nella luce di una sinergia che porti con sé il guadagno di cieli nuovi e terre nuove, piuttosto che la reiterazione di modelli mondani che hanno segnato il passo del discrimine e dell’ingiustizia.
[1] Scrive a tal proposito la teologa Cettina Militello: «Secondo la testimonianza del NT, Gesù di Nazaret agisce assecondando la dynamis dello Spirito che ne sorregge l’evento; agisce esprimendo fattivamente l’exousia che lo connota. Ed elargisce ai suoi lo Spirito partecipando loro la sua medesima autorità. Non si tratta però di autorevolezza sacrale, né tanto meno di un «potere» che abbia tratti diversi da quelli del servizio. Anzi, è esplicita la presa di distanza da tutto ciò che connota il dominio nelle sue forme «imperialistiche».», cit. tratta da:
- MILITELLO, Ripensare il ministero. Necessità e sfida per la Chiesa, Nerbini, Firenze, 2019, p.86.
[2] Cfr. Lumen Gentium ,10 https://www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-ii_const_19641121_lumen-gentium_lt.html)
[3] Mi avvalgo qui della consulenza della latinista prof.ssa Alia Tarantello D’Anna, la quale suggerisce la seguente traduzione: “Sebbene differiscano soltanto per essenza e non per grado”, considerato che regola grammaticale vuole che l’avverbio modifichi un verbo, non un sostantivo, dunque tantum non può essere riferito a gradu ma va riferito a differant; l’uso di et non avvalora il voler escludere che la differenza sia per grado. Non si comprende poi perché il sostantivo essentia venga tradotto come avverbio (“essenzialmente”), a scapito della forza di correlazione avversativa tra i sostantivi essentia e gradu.
[4] Cfr: Lumen gentium, 10 in: https://www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-ii_const_19641121_lumen-gentium_it.html.
[5] G. Barbaglio e S. Dianich (a cura di), Nuovo Dizionario di Teologia, Edizioni Paoline, Firenze, 1979, p. 922.
G come Generatività, di Valentina Chinnici
Se una donna vuole dare un contributo autentico alla società e alla politica deve farlo con una cifra propria, che esalti il valore della sua differenza rispetto ai modelli imperanti, spesso impregnati di retaggi patriarcali, e soprattutto ammorbati di narcisismo e autoreferenzialità.
L’agire femminile può e deve scegliere, se vuole incidere davvero, il paradigma della generatività, che, ovviamente può essere incarnato anche dagli uomini, tanto è vero che “La politica generativa” è il titolo di un agile volume di Guglielmo Minervini, che fu assessore alle politiche giovanili della Regione Puglia dal 2005 al 2015, quando la Regione era governata da Nichi Vendola. Grazie a questo testo, che può ancora essere di grande ispirazione per chiunque abbia a cuore la cosa pubblica, possiamo tracciare a grandi linee il modello della generatività politica: “la politica generativa è una risposta al crollo di reputazione della vecchia politica”, scrive infatti l’autore, “matura le sue decisioni dal dialogo con la comunità” compiendo così “una rivoluzione radicale: cede potere, anzi, meglio, lo restituisce ai cittadini, per guadagnare potenzialità. Mette in condivisione la decisione ma in cambio riceve legittimazione. Ottiene riconoscimento sociale. Recupera reputazione e, dunque, capacità di incidere. Guadagna possibilità di cambiamento… è una politica più debole nel comando ma più forte nella comunità. Il contrario del modello che domina la scena pubblica: una politica arrogante nel palazzo ma screditata nella società”.
Come si comprende dalle parole di Minervini, che questa politica ha realmente praticato, si tratta di un agire che accorcia le distanze tra fuori e dentro i palazzi istituzionali, “che abbassa il ponte levatoio”, puntando sulla fiducia nella comunità, sul rispetto delle decisioni prese insieme, sulla forza delle energie sociali che vengono sprigionate, sulla redistribuzione del potere e del protagonismo delle persone. Perché, come diceva Calamandrei, lo scopo della democrazia è dare a ciascuno “il suo posto di sole e di dignità”, compito che per il grande giurista era affidato soprattutto alla scuola, ma che spetta a chiunque rivesta ruoli pubblici nelle istituzioni e li incarni nel rispetto assoluto della Costituzione. E’ il momento in cui anche in Italia si sta sfondando il tetto di cristallo che impediva alle donne l’accesso alle più alte cariche politiche: ed è quindi il momento propizio per mostrare che non occorre “portare i pantaloni” o mostrare sedicenti “attributi”, bensì saper essere “combattenti con grazia”, come ha affermato la prima sindaca della storia di Firenze appena eletta, lottando e lavorando per i propri sogni che abbiano al centro una visione di comunità solidale, giusta, inclusiva, che rifugga la logica dello scarto e valorizzi qualsiasi contributo, anche il più piccolo, soprattutto di chi non può o non vuole gridare per far ascoltare la propria voce. Questa politica può generare cambiamento, innescare processi di rinnovamento profondi, rinsaldare la coesione sociale e restituire speranza e sogno anche a chi ha perso fiducia e senso della propria vita, come i tantissimi giovani che, sentendosi ormai irrilevanti e privi di futuro, cercano risposte devianti, e spesso violente, a bisogni giusti e desideri sani.
G come grembo, di Caterina Spinelli
Grembo il più bel contenitore dell’umanità…
La Terra è Grembo dove anche il più piccolo seme porterà i suoi profumati fiori e succosi frutti
I boccioli sono il grembo dei semi e anche i loro frutti sono grembo del seme...
Tutte le maternità umane e spirituali sono Grembo da cui nasce una nuova vita da Custodire Amare e Curare
Mi piace pensare che da un contenitore piccolo e vuoto se si lascia spazio all'Amore nascerà un nuovo Amore.
Lasciamo che l'Amore crei in noi Grembi dove ogni uomo e donna posso trovare una mamma che ci porti a Lui, L'Amato.
G come Gratitudine, di suor Gabriella Bandini
Gratitudine,
.. . è un percorso di vita, entra piccolo ed umile
senza che tu te ne accorga:
vivi una situazione,
incontri una persona,
ti colmi di stupore di fronte alla natura
cadi in ginocchio
adorando l'Eucaristia ti smarrisci di fronte te al coraggio del povero e di chi è in sofferenza.
E io? Resto muta, smarrita, so che non c'entro in
questo mare di amore in cui mi trovo immersa.
Accorgermene è gratitudine, lasciarmi riempire da Dio, dalla bellezza che mi circonda,
riconoscere la forza della Fraternità tra le famiglie, i giovani, la Chiesa tutta,
che entrano a corroborare la mia Consacrazione a Dio Solo!
Gratitudine è restituire l'amore ricevuto senza fermarmi per la mia povertà,
vivere ringraziando questa immensità di bellezza che trasmette l'amore del Creatore.
PALERMO, tu con la tua gente e la città intera mi hai dato tutto questo.
Te ne sono veramente grata!!!
G come Grazie, di Yodit Abrah
Ho faticato tanto a cercare la parola che mi è stata chiesta di scegliere e non perché la lingua italiana non ne contenga di parole con infinita bellezza. La prima che automaticamente, mi è venuta in mente è stato Lucia, e nel pensare come raccontarla, mi sono ricordata di un pomeriggio di dicembre, eravamo in via Maqueda piena di luci, animata dall’atmosfera di Natale, Lucia mi consegna un pacchetto e una lettera. Mi autorizza solo di aprire il pacchetto, perché la lettera non voleva che la leggessi in sua presenza…e come al solito aveva quell’espressione di imbarazzo con la sua risata unica e inconfondibile che significava dire in quel momento” mi vergogno”, “ non voglio piangere”, “ noi non siamo sdolcinate” Nel pacchetto c’era una palla di Natale dipinta a mano personalizzata con il mio nome e quello di Giuseppe, mentre la lettera era una lettera di Ringraziamenti, motivo per cui scelgo questa semplice parola di sei lettere “Grazie”. Grazie è una parola che racchiude una moltitudine di significati e sfumature che esprime la più alta forma di gratitudine che ci permette di entrare in modo autentico in sintonia con l’altro, anche se spesso è una parola che viene usata in modo automatico nella sua forma convenzionale, dove quasi nessuno si sofferma sul suo significato più profondo, come eri capace di fare tu. Nel leggere quella lettera, dove tu eri grata di avermi conosciuta, per aver imparato tanto da me e del rapporto che eravamo riuscite e costruire, io mi trovavo a riflettere per l’ennesima volta come facevi a mantenere la purezza della tua anima mentre attraversavi una sofferenza indicibile e indescrivibile, perché di questo si è trattato, ma come al solito, tu dovevi prenderti cura dell’altro, hai sempre sentito il bisogno e desiderio di riconoscere l’altro nella sua essenza, anche per piccoli gesti. Leggevo e rileggevo quella lettera e ricordavo tutte le volte che mi hai chiesto scusa perché non eri in ottima forma e ti dispiaceva farti vedere che stavi male, per questa profonda e straordinaria attitudine che avevi nel prenderti cura degli altri, se poi erano degli affetti sentivi maggior responsabilità a farli stare bene e non volevi che soffrissero per te. La parola Grazie è tra quelle parole che ti rappresenta e ti descrive Lu e non c’è stato abbastanza tempo, per poterti dire la persona che sei stata per me, ma la dura verità è che di tempo forse c’era, ma la mia negazione e non accettazione non mi ha permesso di dirti alcune cose che sono rimaste sospese. Grazie Lucia per quella che sei stata e continui ad essere Grazie per il dono che mi hai lasciato…. I tuoi genitori. Grazie per avermi insegnato cosa sia la dignità e cura. Grazie per il continuo pensiero a Peppe. Grazie per avermi permesso di far parte della tua vita. Grazie per gli abbracci con gli occhi. Grazie per le tue visite nel nostro luogo segreto, dove posso sentire ancora il tuo profumo e il calore dei tuoi abbracci E scusa per le parole che non ho avuto il coraggio di dire.
H COME HABITAT, di Annamaria Carobella
Come ambiente non solo quello che custodisce la vita animale e vegetale, ma anche quello riguardante
le abitazioni. E noi donne abbiamo cura di entrambi, li preserviamo con attenzione da chi li vuole attaccare e distruggere perché
se non lo facciamo, questo va a discapito delle persone e di tutti gli esseri viventi che amiamo.
Proteggere l’ambiente, le mura domestiche significa proteggere se stessi, sentirsi al riparo, salvi!
H come humanitas, di Mara Torricelli
Chi, meglio di una donna, può incarnare il profondo significato della parola latina? Humanitas, significa attenzione alla parte “umana” che è dentro all’essere umano, e quindi ai propri sentimenti, alle proprie paure. Volgere l’attenzione, girare piano la testa: dal sole rigoglioso della vittoria e del successo, dal rosso della violenza necessaria ad ogni vittoria, che richieda sangue. Un volgere lento, il chiarore fra i capelli, verso quella parte umbratile che è dentro di noi. Di ognuno di noi. La parola Humanitas nasce nella Roma antica, quando gli Scipioni, vincitori di Cartagine, e fautori del progressivo imperium romano, decisero di usare il bottino di guerra, per colmare un’immensa lacuna dei romani. Essi, infatti, caparbiamente intenti alla guerra, ed a fuggire ogni debolezza, non conoscevano le lettere. Pochi avevano studiato filosofia, pochissimi conoscevano la poesia dei sentimenti. La loro poesia erano odi, poemi epici, Inni, più vicini alla lode e all’incitamento che a magnificare il motore della nostra anima: il cuore. Per capire il passaggio, basta sapere da dove nasce la parola “humanitas”. Siamo in una commedia di Terenzio, uno degli intellettuali protetti dal Circolo culturale degli Scipioni, nella commedia intitolata “Il punitore di se stesso”. Ad un contadino è morto il figlio in guerra; egli si ritiene colpevole di non averlo capito ed averlo così spinto a fuggire di casa …l’uomo non si da pace, e così lavora il campo dalla mattina alla sera, con una fatica estenuante che lo sta uccidendo. Un vicino lo vede e gli chiede il perché di questo sfinimento. Dopo la spiegazione fra il pianto, è il contadino, che si stupisce dell’interesse umano dimostrato dal vicino nei suoi confronti e gliene chiede il motivo; egli risponde “perché sono un uomo, e come tale ritengo che niente di umano, mi debba essere estraneo”. E così, lottando contro chi diceva che le vittorie in guerra non prevedono sentimenti, né dolori esistenziali, né interesse per i deboli, né fragilità, si oppone la sensibilità. L’humanitas, appunto. E chi, più di una donna, più di una madre, può capire e incarnare questa parola? La donna sta nell’ombra e vede, e sente, e capisce. Sta nell’ombra, come Maria all’ombra della croce, una Maria desolata. Resiliente, afflitta. Un sasso che conosce le pietre. Nelle donne, anche alle più colorate e dall’apparenza dura o frivola, è sempre acceso il motore del cuore. Lo è per natura, lo è per le caratteristiche, biologiche e umane, oltre che divine. Esse fanno “appello alla capacità di mediare, alla flessibilità, alla tenerezza che spesso penetra l’essenza più intima delle cose riconducendo poi il tutto a razionalità e anticipazione del futuro” (Rita L. Montalcini). Perché le donne sono madri, anche se non hanno figli. E dunque, è semplicemente da loro, che nasce l’humanitas.
I come Impeccabile, di Francesca Di Liberto
Ci si aspetta sempre che noi donne siamo impeccabili, perfette in tutto.
Sante con gli uomini, sante come potrebbero essere le sante che vediamo in Chiesa, irraggiungibili, candide e distaccate, pudiche e pure.
Incapaci di poter pensare, di fare il primo passo con un uomo, perché se lo fa, è chiaramente una poco di buono, qualcuno che è giudicabile come "facile" o "provocatoria", qualcuno che possiamo prendere in giro e bollare, con la lettera "P" di puttana, come in una versione rivisitata della Lettera scarlatta ma declinata nell'epoca dei social e della modernità che non perdona nulla e in cui una donna deve misurare i respiri se vuole sperare di non essere giudicata colpevole quando ha il coraggio di trascinare in tribunale i propri aguzzini.
Impeccabile per poter essere riconosciuta come vittima e non come una che se l'è cercata perché, se si mostra come una sopravvissuta allora il proprio dolore non è abbastanza reale, qualcosa non quadra nella storia diranno.
Impeccabile anche quando le altre donne non rispettano quel vincolo sacro che tutte chiamano "sorellanza" e le fanno la guerra sul posto di lavoro perché hanno imparato che Femminismo vuol dire essere lupi come gli uomini e non solidarietà tra sorelle.
Impeccabile, perché una donna è sempre gentile e candida e se non lo è, è solo un'incubatrice di bambini o, peggio, una tacca sulla cintura che presto, con le giuste mosse, crollerà.
Perché o sei impeccabile, e dunque un modello irreprensibile, una Barbie perfetta o non sei affatto credibile come donna.
I come Intersezionalità, di Rachele Scardamaglia
L’intersezionalità si riferisce a forme particolari di oppressioni in cui due o più fattori discriminatori si intersecano, ad esempio, genere e etnia, orientamento sessuale e religione. Il termine è stato coniato per la prima volta da Kimberlé Crenshaw per esaminare l’esperienza di genere, qualitativamente diversa, vissuta dalle donne afroamericane. La giurista mirava a evidenziare le sfide nell’accesso alla giustizia (sociale e non solo) per le donne Nere, descrivendo la loro discriminazione da una posizione, risultante dall’intersezione di più categorie identitarie, come il genere e il colore della pelle. L’intersezionalità emerge dalla necessità di richiamare l’attenzione della nascente Critical Race Theory e di alcune femministe bianche sull’epistemologia delle femministe Nere, concentrandosi «sulla visibile invisibilità delle donne che non erano bianche e sulle persone Nere che non erano uomini»1. Per Crenshaw, l’intersezionalità evidenzia come le categorie si co-costruiscano, come si relazionino continuamente con le strutture sociali e come l’interazione con queste strutture crei discriminazioni che non sono comprensibili analizzando singolarmente le categorie stesse. Possiamo concepire la discriminazione intersezionale come a un’esperienza in cui l’individuo si trova al centro di un incrocio stradale caotico. Se imaginassimo un incidente in cui veicoli provenienti da ogni direzione urtassero simultaneamente chi si trova al centro di questo incrocio, sarebbe difficile distinguere il veicolo responsabile del danno inflitto. Il nesso di causalità tra gli impatti diventa ambiguo mentre è evidente che tutti concorrono all’effetto finale, ossia il danno inflitto. L’intersezionalità, come teoria critica, è oggi adoperata per esplorare le esperienze e le violazioni dei diritti di altre «minoranze nelle minoranze», conservando la sua potenzialità di framework adatto a cogliere la virtualità, come intesa da Deleuze e Guattari, delle categorie sociali emergenti. Un esempio di questo approccio è presentato in uno studio condotto da Alessandra Sciurba, dove il concetto di vulnerabilità viene decostruito e riformulato a partire dall’utilizzo di un approccio intersezionale come strumento per leggere la discriminazione vissuta dai minori migranti che arrivano soli in Italia. L’intersezionalità è dunque un quadro interpretativo, uno strumento e un metodo analitico, un paradigma utilizzato per comprendere l’esperienza degli individui all’intersezione di numerose e simultanee oppressioni.
1 Kimberlé Crenshaw, Post Scriptum in Helma Lutz, Maria Teresa Herera Vivar, & Linda Supik, Framing Intersectionality. Debate on a Multi-Faceted Concept in Gender Studies, Farnham, Surrey: Ashgate, 2011.
L come Lavoro, di Bijou Nzirirane
Il lavoro si può chiamare anche donna in quanto, o che si occupano del lavoro di cura all’ interno della famiglia o che svolgano un lavoro retribuito, tutte le donne lavorano.
Però il lavoro di cura gratuito e quotidiano all’ interno della famiglia, che consiste nell'occuparsi dei figli o degli anziani spesso non autosufficienti, non viene riconosciuto nonostante gravi quasi esclusivamente sulle donne, in virtù della persistenza di stereotipi di genere secondo i quali rientra “naturalmente” nel ruolo delle donne.
Non soltanto questo tipo di lavoro non viene riconosciuto, malgrado rappresenti una sorta di welfare universale che sopperisce al welfare pubblico non più garantito in misura sufficiente dallo stato, ma rappresenta uno delle cause del mancato inserimento delle donne nel mercato del lavoro o fuoriuscita nel caso in cui la donna abbia già un lavoro.
Infatti, secondo diverse analisi, il nostro paese continua a non essere “un paese per mamme” e maternità e carriera, in Italia, costituiscono, ancora per molte, un bivio non bypassabile determinando condizioni di segregazione orizzontale e verticale in cui le donne vengono intrappolate... Questo si evince dall’ assenza di servizi pubblici e gratuiti per tutti (asili nido, tempo pieno scolastico, cura degli anziani soprattutto non autosufficienti) unitamente ad una squilibrata divisione di compiti all’interno della famiglia tra uomini e donne, fanno sì che le donne, soprattutto le più povere, paghino in prima persona il benessere dell'intera collettività. La situazione è ancora molto difficile per le donne migranti che si trovano senza l’aiuto della famiglia allargata
Anche per quanto riguarda il lavoro retribuito le cose non vanno meglio. Il lavoro retribuito delle donne è scarso dal punto di vista quantitativo, precario, sottopagato e confinato a professioni poco remunerative anche in presenza di alti titoli di studio posseduti. In Italia, in particolare al Sud, abbiamo un tasso di disoccupazione maggiore che in Europa con picchi che vanno dal 30,30% nella provincia di Trapani al 44,30% della provincia di Caltanissetta. Anche quando il lavoro c’è spesso è precario e meno retribuito rispetto a quello degli uomini, sia per la presenza massiccia di part-time involontari sia per l’utilizzo diffuso e continuativo di contratti a tempo determinato o flessibili o atipici determinando il tanto discusso gender pay gap.
Oggi tutti i dati statistici sia mondiali che nazionali rilevano il gender gap salariale, l’ultima analisi dell’INPS “analisi dei divari di genere nel mercato del lavoro e nel sistema previdenziali dai dati Inps” mostrano un gap non solo salariale ma anche previdenziale, questo dato nella vita delle donne, si traduce in pensioni più basse e con insufficienti condizioni di vita dignitose.
Questa situazione può solo ricordaci che non dobbiamo più rimandare la questione dell’uguaglianza dei diritti.
Concludendo, parlare di lavoro, soprattutto quello delle donne, significa parlare di un importante ed imprescindibile strumento di emancipazione economica, civile e personale ma perché lo sia pienamente è necessario che sia retribuito adeguatamente, che sia tutelato in termini di diritti e di sicurezza e che sia riconosciuto socialmente.
Ricordiamoci la nostra bella Costituzione italiana:
Art 1: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.
Art 3: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
L come Leadership, di Chiara Tintori
Quanto bisogno abbiamo di leadership femminile! Nelle nostre comunità civili e religiose aneliamo a donne che in posti di responsabilità siano portatrici di uno stile unico, senza scimmiottare quello maschile. La leadership è la capacità di accompagnare, di essere guida perché le persone attorno a noi fioriscano. Eppure, quante donne esercitano una leadership energica e muscolare, in cui si mostrano “il capo”, forte e valoroso (tutto al maschile, sbeffeggiando la grammatica italiana!). Il modello di leadership più diffuso oggi è improntato all’efficienza, alla prestazione, volto a esercitare pressione sugli altri, arrivando anche a manipolarli. Questo stile di leadership trascura l’elemento degli affetti e delle relazioni, che invece sono parte integrante di un buon lavoro, di risultati di qualità e di una serena vita personale e sociale.
Inoltre, la leadership si alimenta di fiducia e capacità di delega, senza le quali ci si ritrova in balia della sindrome dell’accerchiamento, si vedono avversari ovunque, si costruiscono nemici ad arte.
Nella recente storia politica europea e italiana stiamo assistendo all’emergere di donne leader, espressione del potere patriarcale, che incarnano senza sentire il bisogno di prenderne le distanze. E la loro visione politica è volta a irrigidire proprio i ruoli stabiliti dalla società patriarcale: la divisione netta dei compiti tra uomo e donna, il ruolo materno esaltato per il bene della patria. In tale cultura politica è decisiva la questione del merito individuale: se queste donne sono riuscite a emergere lo devono solo a sé stesse, al proprio “valore” che ha permesso loro di valicare le discriminazioni. Non vi è spazio per la solidarietà femminile, né per una leadership plurale, che rechi vantaggio alle donne di oggi e di domani.
Una leadership femminile originale è, invece, inclusiva e creativa, predilige processi partecipati, in cui ciascuno – indipendentemente dal genere – si sente protagonista, senza rancore. Investire nei processi è strategico perché maturino la capacità di mediazione e di sintesi, ingredienti essenziali perché la vita democratica non si scolorisca. Ecco perché urgono strumenti innovativi, buone pratiche e modelli che siano fonte di ispirazione per una nuova grammatica relazionale, sociale, aperta a valorizzare le differenze.
Leader è colei che si mette in fondo quando c’è da festeggiare e in prima fila quando c’è da trainare. Leader è colei che lascia spazio al pluralismo, senza temerlo. Leader è colei che permette alle persone di prendersi cura di quello che fanno. I leader possono tirare fuori il meglio o il peggio dai propri seguaci. Una leader donna può mettere la propria differenza a servizio delle altre differenze, perché ciò che è inclusivo allarga la realtà.
Sogno leadership femminili non necessariamente individuali, ma collettive e diffuse, dove il “noi” prevalga sull’”io”, perché tutta la comunità si apra a un futuro di speranza. Insieme.
L come Libertà, di Maria Teresa Murgano
Ho scelto questa parola perché mi sta molto a cuore.
Oggi le leggi di molti governi mettono sempre più barriere ed etichette, divieti continui: di esprimersi, di contestare, di essere differenti. C'è una tendenza sempre più crescente all'omologazione, all'uniformità del pensiero, delle culture, delle religioni e delle persone, il rischio è la perdita della nostra unicità.
Non molti anni fa un grande uomo (V.Frankl) che aveva vissuto sulla sua pelle una condizione di terribile prigionia e povertà, diceva: "Tutto ci può essere tolto tranne una cosa: la nostra libertà di scegliere COME vivere le situazioni".
Ma il come non si improvvisa, bisogna allenarsi, la libertà è un dono ma anche una responsabilità da imparare, da assumere, da trasmettere ad altri.
A scuola ai miei alunni dico sempre che, se insieme avremo imparato il senso della libertà avremo imparato come vivere.
Io ho avuto un grande Maestro, un uomo di cui mi sono profondamente innamorata; Lui era un uomo libero e amava liberare le persone e lo faceva in un modo semplice: accoglieva tutti senza distinzioni, li chiamava per nome, se ne prendeva cura, restituiva loro dignità.
Il Vangelo è ricco di racconti di libertà.
Da lì ho imparato la bella notizia che Dio ci ama e ci vuole liberi e felici, e che libertà è essere sé stessi, fiorire in modo unico, secondo i propri tempi, trovando i propri spazi senza invadere quelli degli altri, è crescere senza lasciarsi soffocare dalle aspettative e dai giudizi degli altri.
Libero, libera, è chi è consapevole che nessuno può vivere al suo posto, chi impara a pensare con la propria testa sin da bambino, impara a scegliere, a dire sì, a dire no, a distinguere ciò che è bene, da ciò che fa male a sé o agli altri. Dico sempre ai miei bambini: "Se non impariamo a pensare e a scegliere con la nostra testa, altri lo faranno per noi, altri sceglieranno e determineranno la nostra vita e noi saremo delle marionette i cui fili vengono mossi da altri”.
Libertà è anche accoglienza, respiro, possibilità di aprirsi agli altri, è sognare, è desiderare in grande, è volere con determinazione.
Libertà è stare bene insieme, è costruire spazi in cui potersi raccontare, luoghi in cui si possa ridere e giocare senza troppi formalismi.
Per essere liberi occorre coraggio, e talvolta TRASGREDIRE, nel senso etimologico di andare oltre, di rompere con alcuni schemi del passato, con alcuni modelli di riferimento per aprirsi ad altri nuovi, meno conosciuti, perché la vita stessa ci chiede di andare oltre, di crescere, talvolta anche correndo il rischio di percorrere una strada che nessuno ha ancora percorso.
M come Madriterraneo, di Carola Messina
MADRITERRANEO è NEO-TERRA-MADRE, un neo che è il nuovo e al tempo stesso un punto nero.
Pensando al Mediterraneo, al tempo simile e in altro diverso da sé stesso, nasce MADRITERRANEO che ha molti nomi e diverse sfaccettature, come tante sono le madri: un mare/madre che è culla ma anche culla di tanti popoli e civiltà/figli diversi e uguali. Esso dondola, addormenta e cura, come solo una madre sa fare, addolcisce con filastrocche e ninnenanne, le stesse che, in un momento di ira e di impeto, si trasformano in tuoni di parole, urla tremanti ed onde emotive impazzite senza confini, che si alzano talmente enormi da uccidere, letteralmente che affogano.
Nella sua versione peggiore, MADRETERRANEA ingoia i suoi figli, come tanti miti incentrati proprio su questo mare tra Scilla e Cariddi ci hanno insegnato. Mediterraneo è MADRITERRANEO, matrigna che incattivita lascia madri senza terra, senza matria o patria, figli orfani, mogli vedove, madri vuote e straziate dalla loro stessa ira, dolore e urlo disperato.
Una MADRETERRANEA sufficientemente buona e al tempo stesso sufficientemente cattiva che può unire e accogliere diversi popoli/figli, anche quelli non partoriti direttamente da lei; che è anche in grado di dividere, disgregare, abbandonare nelle acque tempestose e burrascose della vita, seppellendo negli abissi più profondi corpi senza traccia o restituzione alcuna.
MADRITERRANEO è quel luogo dove tante madri hanno partorito su un letto d’acqua, che in condizioni favorevoli di calma piatta ha donato lacrime di gioia dal sapore salato-dolce gradevole al palato e profumato; altre volte lacrime di sale, taglienti come il vetro, amare come il fiele, da strappare il fiato e le vite appena messe al mondo. Cosicché, i colori dell’azzurro sfavillante, del verde smeraldo e del turchese si trasformano in tenebra, grigio, nero-petrolio.
MADRITERRANEO non è una semplice appartenenza, è oltre l’identità, è la madre che rappresenta un porto sicuro, un approdo, un ancoraggio, un faro e una bussola, al tempo stesso, indicando i percorsi e le traiettorie, gli stop e i divieti; è la via verso casa che profuma di mandorlo, zagara e gelsomino, di vini inebrianti, di oli essenziali, distese di ulivi e di agrumi che segnano i confini, dove inizia e finisce la nostra madre terra. MADRETERRANEA sa di salvia, menta, alloro, rosmarino; è tavola imbandita, cibo generoso da offrire a tutti, miseria e ricchezza, al tempo stesso, e dentro queste contraddizioni accoglie, contamina e assorbe culture, si nutre di esse e, in egual modo, offre nutrimento.
MADRITERRANEO è quell’essere solare che sembra splendere di luce eterna, anche quando lo sguardo è malinconico e triste, rassegnato ad un destino anche doloroso che il corso della storia non ha saputo cambiare; solitario e silenzioso o quasi sempre in attesa della fortuna che arrivi come i venti di scirocco, tramontana o maestrale a stravolgere un destino, per alcuni scomodo e per altri invece, motivo di “vanto” intriso di male.
La MADRITERRANEITÀ non è eredità ma conquista, è cultura tutta al femminile, uno dei beni più preziosi che va protetto e preservato, non perdendo mai di vista che per terra e per mare sono state sempre le donne, le MADRITERRANEE, a condurre le vere battaglie della vita, anche quelle combattute in una terra per alcuni senza Dio e senza uomini.
M come Maternare, di Julia Isasi
Maternare (dallo spagnolo maternar), è un neologismo spagnolo, un nuovo verbo che comprende il significato dell’essere madre. Maternare non solo racchiude il fatto di essere madre, ma di esserlo in modo consapevole, partendo dalla propria scelta e optare per farlo muovendo dalla cura e dall’amore, in un modo sano, stabilendo vincoli e relazioni sicure con le proprie figlie e/o figli, accompagnandolə e rispettandlə per contribuire alla loro crescita, ma anche proponendo limiti chiari. Maternare è un verbo che si riferisce e include le madri biologiche, ma anche quelle che non lo sono.
Il verbo maternare non vuole idealizzare la maternità né tanto meno sottovalutare o escludere chi per motivi sociali, culturali, biologici o circostanziali, non ha potuto decidere di esserlo, o ha scelto volutamente di non esserlo.
La maternità, l’essere madre, e per tanto il fatto di maternare, è uno dei compiti più difficili e allo stesso tempo più sottovalutati e messi a giudizio nella vita delle donne. Ci sono tanti modi di maternare quante sono le madri, nessuna madre è perfetta, né deve esserlo.
La consapevolezza insita nel maternare, alla quale si giunge se si posseggono specifici strumenti (educativi, culturali e sociali) è in tal senso un privilegio e diviene quindi un'opportunità, che si associa a un forte senso di responsabilità.
Maternare ti mette ogni giorno davanti alle tue insicurezze, ti obbliga a ripensarti e rivederti in un nuovo ruolo: non più solo quello di figlia, caratterizzato in gran misura dall’atto di ricevere (cura, attenzioni, accudimento, valori) ma anche quello di madre, chiamata quindi a dare a sua volta quegli elementi fondamentali per la crescita, che fino a quel momento rischiavano di essere stati dati per scontati. Un compito diverso, e profondamente determinante per la vita di un’altra persona, per tanto di tutta una generazione e di una società proiettata verso il futuro.
Allo stesso tempo, maternare condiziona tutto il resto delle circostanze proprie della vita della madre, obbligandola costantemente a scegliere e quindi a rinunciare, mettendo spesso da parte i propri desideri. Nel momento in cui la maternità ha inizio, i propri bisogni, anche quelli più primari, come il sonno, vengono sorpassati dai bisogni di una terza persona, e questo può avvenire solo se spinto dall’amore più profondo e viscerale, e porta con sé grandi cambiamenti e soddisfazioni, ma anche instabilità e dolore nella vita di una donna.
Maternare consapevolmente è un fatto profondamente gratificante in alcuni momenti, e in altri molto frustrante, per questo è importante che non sia un compito esclusivo della madre. Le responsabilità sullə propriə figliə non possono ricadere tutte sulla persona che ricopre il ruolo di madre. Spesso le madri hanno un sovraccarico mentale perché obbligate a prendere troppe decisioni, ad assumere infinite responsabilità e compiti relazionati con il maternare, ma come dice il proverbio africano: “per crescere unə bambinə ci vuole un intero villaggio”.
N COME NASCITA, di Annamaria Carobella
Ogni giorno noi donne diamo la vita proprio come i giardini danno i fiori.
Siamo nate con questa parola, scritta nel nostro DNA e siamo pronte a difenderla ad ogni costo, in ogni situazione e luogo.
E’ tempo di nascita quando accogliamo un bimbo nostro o di altri, è tempo di nascita quando ci battiamo per diffondere il bene,
è tempo di nascita quando ascoltiamo e facciamo nostre le sofferenze altrui, quando sappiamo perdonare e ricominciare,
quando accogliamo e sorridiamo anche con la morte nel cuore, quando consoliamo cento, mille volte per far rinascere la speranza
in un cuore ferito
O come oriente, di Mara Torricelli
La donna è collegata inscindibilmente con la parola “oriente”. Oriente è una parola di origine latina, participio del verbo orior, nascere. Quindi, la donna si fa esempio materiale della nascita; nascita che, a sua volta, la ricollega alla sua figura di madre. Numerose sono le attestazioni nella letteratura e cultura classica dell’accostamento della donna con l’oriente. L’oriente è, per tutte le culture, il punto cardinale in cui si fa luce, e la donna diventa il faro che illumina la strada, il cammino. Impossibile non pensare alla figura della madre, colei che ti guida (come la luce che fuga le tenebre) e che rappresenta per te, la vita. "Ella era come la statua collocata in vista del sole oriente", così scriveva Gabriele D'Annunzio nel romanzo "La vergine delle Rocce". Oriente è il punto in cui il sole sorge, regalando una nuova alba. È un punto-metafora. Sì, perché indica anche la luce che squarcia le tenebre, dell’ignoranza, del dubbio, della cecità. Vita, luce. Le tenebre spesso sono il nostro castigo. Ci cadiamo per dolore, per la rabbia che oscura. Ci cadiamo per orgoglio. Siamo poveri umani smarriti in una selva “dove il sol tace” come dice Dante (Inf. 1). Il simbolo si fa vita umana: siamo nelle tenebre, come il bambino nella placenta che deve nascere. Intravede solo un vago chiarore, là, ad est. Come noi, al trascolorare della notte.
E poi, la nascita.
Il simbolo della donna-sole nascente è vivo in molte culture, proprio perchè l’ssociazione con la madre, è antropologicamente universale. In Giappone, per esempio: “In origine la donna era veramente il sole. Una persona autentica. Adesso la donna è luna. Luna dal volto deperito, di malato, brilla di luce altrui, da altri dipende la sua vita […]” (Hiratsuka Raichō). Essa viene identificata come la dea Amaterasu: è luce senza la quale “le pianure del sommo cielo e le terre immerse nelle pianure di giunco” cadono in rovina. (urly.it/312wsp)
Ma nessuno, come Dante Alighieri, ha saputo accostare la luce che nasce ad oriente, alla donna. Egli ci ha insegnato che la donna è luce che illumina, ti mostra il cammino. Diventa un ideale, che puoi seguire anche se il corpo naturale della figura femminile non c’è più. L’ideale da seguire vince la morte fisica. Con questa Fede, noi siamo il bambino che sotto la guida materna, si lascia incoraggiare a vivere, fino ad alzarsi in piedi, eretto, pronto a camminare da solo.
L'oriente e la madre sono un legame inscindibile. Un Alfa e omega
E insieme, ci avvicinano all'unica risposta possibile: è Amor, che move il sole e le altre stelle (Dante, Pd XXXIII 145)
P come Potere, di Maria Naidotti
Parola a due facce, cambia di segno e di significato a seconda della preposizione che la segue.
Se si accompagna alla preposizione di è sinonimo di facoltà, forza, capacità, possibilità, attitudine, virtù, dono, talento di fare o decidere qualcosa. Abbiamo il potere di ridere, cantare, parlare, scrivere, far crescere le piante, guardare, ascoltare, dire la nostra, andarcene, disobbedire: la lista è infinita. Peccato che non sempre siamo libere/liberi di esercitarlo, perché ci viene impedito dall’esterno oppure perché la libertà ci fa paura.
Se si accompagna alla preposizione su è sinonimo di dominio, potenza, comando, influenza, supremazia, egemonia, potestà su qualcuno o qualcosa. È una declinazione predatoria, gerarchica, individualistica, escludente del concetto di potere. Esercitarlo prevede una visione in bianco e nero, sotto e sopra, mio e tuo, noi e loro, del mondo. È un potere che non sa sciogliere il conflitto se non attraverso la guerra, l’eliminazione o la subordinazione dell’altro.
P come Perdono e come Pazienza, di Domenica Coratti
Perdono, condizione essenziale per tenere in piedi le relazioni importanti, quelle con le persone più vicine, marito, figli, genitori, sorelle e fratelli. Queste relazioni condizionano la vita di una donna e spesso la limitano perché sono invasive, a volte irrispettose del suo essere, dei suoi bisogni, dei suoi sentimenti. Alle donne occorre una forza spesso logorante per superare i limiti creati da queste relazioni, ma per essere vincenti non giova trincerarsi nell’astio, nella vendetta. Forse la capacità di perdonare, di offrire sempre nuove opportunità di restare in relazione, che non è essere arrendevoli, è la strada per fare comprendere che hai fiducia nell’altro/a, che per te è importante, ma comunque tu hai bisogno dei tuoi spazi e li vuoi gestire con dignità. Il perdono è un esercizio con cui la donna si confronta in continuazione a meno che non incontri un muro. Pazienza, credo sia strettamente correlata al Perdono. Se non c’è Pazienza non ci sarà Perdono e nemmeno più relazione. Anche la pazienza non deve essere arrendevolezza, non può essere rinuncia al bisogno di affermare la propria dignità, di coltivare i propri interessi, di elaborare i propri obiettivi, ma può coniugarsi con l’ascolto, il rispetto e l’aiuto verso gli altri che ti stanno accanto. A volte i loro problemi hanno priorità e, con pazienza, le donne si prestano ad affrontarli, valutando diverse soluzioni, chiedendo collaborazioni anche esterne. Come donne che non rinunciano ad affermare la propria persona, all’interno della famiglia prima ancora che nella società, possiamo offrire nuove prassi di vita, che possono poi estendersi alle comunità e alla società tutta per un maggiore benessere collettivo. La pazienza e il perdono sono le armi delle donne, usate con intelligenza per affrontare situazioni conflittuali e conquistare oasi di pace.
P come Patriarcato, di Francesca Barbino
Dal latino patriarcha, a sua volta dal greco πατριάρχης (patriarkhēs), "padre di una razza" o "capo di una razza, patriarca", composto da πατριά (patria), "stirpe, discendenza" e ἄρχω (arkhō), "comando". Ci suggerisce Wikipedia che storicamente, il termine è stato usato per riferirsi al dominio autocratico da parte del capo di una famiglia; mentre in tempi moderni e da un punto di vista sociologico, si riferisce più generalmente al sistema sociale in cui il potere è prevalentemente detenuto da uomini. Termine contrastato, odiosamato, triggerante, dice Vera Gheno. “Ma che c’entra! Quelli sono picciotti persi, malati, te lo dico io che ci ho a che fare ogni giorno” disse l’amico di amici durante una scampagnata. “Poi però iniziamo a parlare pure di matriarcato”, ironizzò il collega solo per sfotterci e farci arrabbiare. “Il patriarcato non esiste”: non riconoscerlo, non dargli un nome, ometterlo del tutto nelle notizie di cronaca all’indomani dell’ennesimo caso, in un convegno sulla violenza domestica o, peggio, silenziarlo e ancora negarlo, significa assolverci come comunità. Significa additare sempre un mostro, esterno, che non ci appartiene, davanti a qualsiasi insulto, discriminazione, forma di violenza. Significa tergiversare, non guardare le radici di un albero ormai solido e rigoglioso, ma soffermarsi sul sole che lo scalda o la pioggia che lo bagna di tanto in tanto, per renderlo solo un po’ più forte. Significa che le vittime sono vittime - meschine, però forse potevano evitare? E che i carnefici sono i carnefici - annientiamoli! Che contano come oppressioni solo i casi gravi, eclatanti, tristi, come se questi non fossero solo l’apice dell’altissima piramide della violenza di genere. E che noi siamo noi, al di sopra delle parti, senza macchia alcuna: ma che ci entriamo infatti noi, bianchi, italiani, istruiti, sani, occupati, brillanti bravi ragazzi… Significa non rendersi conto di quanto il patriarcato leda tutti i generi: Fai l’uomo, non piangere! Fai l’uomo, prenditela! “Lo stupratore non è malato, è figlio sano del patriarcato”, ribattono le sorelle di Non Una di Meno. “La violenza sessuale è sorella di primo grado delle battute sessiste, del “frosh” detto tanto-per-scherzare, del femminile usato in senso dispregiativo, delle chat in cui si distribuiscono voti alle amanti [...], dei libri di storia che cancellano le donne, degli sguardi e dei commenti per strada, dei giochi giusti per le bambine e quelli giusti per i maschi, del “non uscire da sola la sera” o “stai attenta a come ti vesti”, delle nostre battute sul “body shaming”, tuonò Luigi Carollo in pubblica piazza. Le 104 vittime di quest’anno, che ancora non è finito, non sono vittime di una serie di squilibrati. È il patriarcato che uccide. E forse è il caso di smettere di discutere sulla validità di questa triste parola, ma di sdoganarla: a scuola, a casa, nei luoghi di lavoro, nelle piazze, nei tribunali. In tutti quei luoghi in cui sarebbe il caso di fare prevenzione, partendo dalle parole e continuando, dalla materna, su fino ai gradi più alti fino all’università, educando al consenso e promuovendo il benessere delle persone, creando spazi sicuri per chiunque li attraversi. Forse è il caso di decidere, finalmente, da che parte stare. In effetti, io sto bene solo dalla parte delle mie sorelle. Rabbia, proteggici!
R come Rassegnazione, di Assunta Lupo
“Che accetta o ha già accettato, senza reagire, ribellarsi o protestare, imposizioni, gravi rinunce e perdite, dolori o danni e mali”.
Questo il significato della parola rassegnazione secondo alcuni dizionari, un termine che è stato ed è ancora adoperato da molte donne purtroppo ancora vittime di un falso concetto di sottomissione ad una vita segnata da fatti sfavorevoli: “Sia fatta la volontà di Dio…, accettiamola”.
Quante volte lo abbiamo sentito dire e quante volte ci ha fatto rabbia l’idea di dipendenza fatalistica e l’attribuzione a Dio, Padre misericordioso, dell’origine dei nostri mali.
Bisogna però distinguere: ad un lutto quale la perdita dei figli o dei genitori in giovane età, alla disabilità dei familiari, alla convivenza con malattie invalidanti è quasi impossibile rassegnarsi. Sono esperienze che in tante abbiamo provato e che, però, pur cambiandoci la vita, possono aiutarci ad avviare percorsi di pazienza, di tolleranza e di resilienza, accettando il dolore e provando a reagire alle difficoltà.
Quante esempi di donne che non si sono chiuse in sé stesse, ma che hanno fatto del dolore, delle sofferenze, elementi di rinascita ad una nuova vita. Non si sono rassegnate le tante donne familiari di vittime della mafia, le ragazze iraniane che lottano per i loro diritti, le madri di Plaza de Mayo e tutte coloro che hanno guardato avanti, consapevoli dell’unicità e del valore della loro essenza. E non si è rassegnata all’imposizione delle regole del tempo quella Rosalia che nel lontano Medioevo abbandonò gli agi della sua casa alla ricerca di una vita autentica a contatto dell’essenzialità della natura. A quattrocento anni dal ritrovamento dei suoi resti il suo gesto coraggioso ricorda a tutte le donne che non bisogna rassegnarsi all’ignoranza, alla violenza, alla prevaricazione, ai preconcetti di genere, alle imposizioni che relegano la donna a ruoli subalterni in famiglia, in politica, al lavoro, nella Chiesa. Non possiamo delegare nessuno a scegliere per noi cedendo, come ha sottolineato più volte Papa Francesco, “all’apatia e alla rassegnazione che hanno il potere di inchiodarci nella tristezza di una vita piatta”.
R come Riscatto, di Rosalia Auteri
Il termine riscatto, in una delle sue definizioni, dice di un patto con il quale il venditore si riserva il diritto di riacquisire il bene venduto rimborsando all’acquirente il prezzo di acquisto; è stato ciò che ho fatto con la mia storia. Ho preteso che mi fosse ridato il sorriso, il mio tempo ma soprattutto il mio valore e il prezzo pagato sono stati sedici anni della mia giovinezza.
Come dice la locandina, che precede questi incontri, “la parola” è considerata elemento sovversivo che mi appartiene e che ho scoperto essere l’unica arma per riscattarmi da una violenza che mi ha “quasi annientata”.
Mi chiamo Rosalia, ho 52 anni e ho subito violenza dal mio ex marito. Quando ho assunto consapevolezza di ciò che stavo facendo, cioè, assecondare, per paura, un sopruso perpetrato per anni, ho cercato in tutti i modi quel riscatto che mi dovevo. Ho compreso, grazie ad una rete che si è formata intorno a me, che avevo tanto da fare, tanti sogni da realizzare e tornare ad essere la donna forte che ero stata prima quell’incontro.
Oggi, sono qui perché vorrei essere la forza per quelle donne che non hanno ancora il coraggio per uscire da situazioni simili alla mia. Ci vuole coraggio, tanto coraggio ma il premio di questo riscatto ha un valore inestimabile: riprendersi la propria vita e riuscire a farne qualcosa di grande. Io ci sono riuscita. Ho avuto ed ho paura ma se penso alla Rosalia di quel tempo provo tenerezza per lei. Una ragazza violata, maltrattata, umiliata da un uomo che di umano non aveva nulla e che l’ha quasi uccisa.
Mi sono laureata, ho insegnato, ho testimoniato ciò che mi è accaduto ma con il sorriso e la certezza che non permetterò mai più a nessuno di trattarmi male, di usare violenza su chi mi sta accanto senza intervenire perché è dovere di tutti noi denunciare questi atti anche se si tratta di persone vicine e importanti per noi. Vorrei chiudere questa grande opportunità che mi è stata data con una frase che mi ha accompagnata nel mio percorso accademico “noi siamo come nani che camminano sulle spalle di giganti”. Solo grazie a chi ci ha preceduto possiamo migliorarci e dunque non perdiamo l’occasione di insegnare ai giovani che l’amore non è possesso e che siamo stati creati per essere amati e non picchiati.
R come Radici, di Valentina Venditti
Terra come forza, come radici, come solidità, come resistenza
“Sorella mia, la nostra terra ha un cuore palpitante,
non smette di battere e resiste
all’insopportabile. Mantiene i segreti
di colline e grembi. Questa terra che germoglia
con spighe e palme è anche la terra
che dà vita a un combattente per la libertà.
Questa terra, sorella mia, è una donna”
Fadwa Tuqan.
A distanza di un anno dall’inizio del genocidio in Palestina, le donne e le ragazze di Gaza continuano ad affrontare, con forza, sfide enormi, lottando per la vita, private delle cose fondamentali per la sopravvivenza: cibo, alloggio, assistenza sanitaria e sicurezza. Circa 1,9 milioni di persone - nove su 10 - sono state sfollate, costrette a spostarsi, più volte, da un luogo insicuro all'altro.
Sabah dice: “Sfollamento dopo sfollamento dopo sfollamento dopo sfollamento…ci ritroviamo in Tende senza dignità e senza privacy, Bagni senza acqua. Strane mosche che pungono come scorpioni. Insetti di tutte le forme e ogni tipo di malattie ed epidemie. Ospedali che non coprono le necessità dei pazienti. Cibo in scatola. Tutto questo sotto incessanti bombardamenti. Siamo stanche di parlare di questa amara realtà”.
Si stima che 43.580 siano donne incinte. Le famiglie sono state costrette in uno spazio sempre più ristretto. I rifugi sono sovraffollati e le condizioni igienico-sanitarie sono disastrose, aumentando il rischio di violenza, infezioni e malattie per donne e ragazze. La mancanza di accesso all'assistenza materna e neonatale sta inoltre aumentando i rischi per la salute delle donne incinte e delle neomamme, esacerbati da alti livelli di malnutrizione.
Samar: “La nostra privacy di donne viene erosa continuamente. I nostri cuori sono appesantiti dalla perdita di persone care e dalla paura per i nostri bambini e le nostre bambine”
Nonostante questo le donne non si fermano. Le associazioni femminili si sono mosse sin da subito per cucinare pane da distribuire agli sfollati, per offrire supporto alle loro comunità e attività per i minori per proteggerli dalle paure.
Sabah, direttrice di Beit al Mustaqbal dice: “Lavoriamo sotto un’enorme pressione. Lavoriamo per aiutare i nostri figli e le nostre figlie, le nostre famiglie e la nostra comunità, persone oppresse che sono stremate e sfinite dalla ricerca di una qualsiasi cosa che possa soddisfare i bisogni di base per continuare a vivere anche se questa vita, oggi, assomiglia al nulla. Non abbiamo altra scelta che continuare a resistere”.
Jamila, direttrice di Roots al Zaytoun, ha perso 29 membri della sua famiglia. Nonostante sia distrutta, ha aperto le porte del suo centro per accogliere 92 persone in difficoltà - “è mio dovere”, ci dice, ma..dopo avere seguito corsi e progetti su diritti delle donne, diritti umani e convenzioni internazionali ci chiede: dove sono i Diritti?…valgono per noi i diritti umani?.
E a questa domanda, alla quale io non riesco a rispondere, risponde Sabah: “È caduto il sipario e sono emerse le colpe di coloro che pretendono di difendere i diritti umani e l’umanità, i diritti dei bambini, delle bambine e i diritti delle donne. Sono cadute le stesse Nazioni Unite. Viviamo in un mondo ingiusto che non riconosce che noi siamo gli occupati e che l’occupante non ha il diritto di violare i diritti di coloro che occupa. Un mondo che ha stabilito leggi per proteggere l'ambiente e gli animali, ma che non riesce a proteggere i bambini prematuri e quelli in terapia intensiva. La fame e la sete, a Gaza, sono dilaganti. Nessuno si è mosso per dare un pezzo di pane e un bicchiere d'acqua a un bambino o una bambina affamata. La storia si ricorderà del silenzio del mondo dei potenti.
E allora noi, per Gaza e per queste donne, dobbiamo continuare ad innalzare il nostro grido di libertà.
R come Ricamo, di Orietta Sansone
Ricamare, da sempre il ricamo è stata un'arte tutta al femminile. Nella tradizione siciliana ma non solo. Alcune donne ricamavano per sé, preparando la loro vita futura. Riempivano bauli di ricami. Altre venivano avviate già da bambine a questo lavoro. C'erano paesi dove donne andavano per commissionare ricami per altre donne, madri e nonne per figlie e nipoti. Si risparmiava per investire in ricami. Ho visto bauli che contenevano lavori di ricami che a volte rimanevano per sempre conservati… immagino donne che piangevano perché, non trovando marito non potevano avere la gioia di mostrare i ricami. Cosa è rimasto di questi secoli di lavoro paziente e certosino? È rimasta una cultura del ricamo? Aldilà delle implicazioni socio/ culturali ho spesso immaginato ogni donna, ognuna di noi anche quelle come me che non sanno tenere un ago in mano, come una specialista del ricamo:
- Ricamare per rendere più bella la vita di chi ci sta accanto;
- ricamare per distogliere lo sguardo da ciò che non piace;
- ricamare per coprire uno strappo (sarcire);
- ricamare per unire e cucire insieme, per includere;
- ricamare anche per divertire;
- ricamare per stupire.
E tutto questo spesso in silenzio, con fatica, con dolore (pungendosi con lo stesso ago) ma senza mai fermarsi per poter vedere il prodotto finito.
Un giorno di un lutto una zia saggia, era una che aveva ricamato, mi disse che la vita è a volte come un ricamo visto dal rovescio, con i nodi e i pasticci che, solo se visto dal lato dritto, si mostra nella sua bellezza. Bisogna arrivare alla fine per comprendere.
Amiche, sorelle, non smettiamo mai di ricamare.
S come Sguardo, di Aurora Nicosia
Atto del guardare alle persone, alle situazioni, ai singoli e ai popoli, alle realtà evidenti e a quelle nascoste.
Atteggiamento che coinvolge gli occhi, la mente, il cuore e interpella fin nel profondo.
Capacità di intuire cosa muove l’animo umano, lasciarsi scomodare, entrare nelle ferite.
Capacità di accogliere, far proprio, quello che si percepisce, stimolando risposte al disagio, al dolore, alle difficoltà.
Capacità di cogliere il bello, il positivo, il bene.
Capacità di guardare “oltre” e consigliare.
Capacità di condividere la vita facendosi compagni di viaggio.
Capacità di pensare al bene comune.
Capacità di guardare avanti, di coinvolgere altri soggetti nel progettare un futuro migliore.
Capacità di non fermarsi alla superficie ma di guardare in profondità.
Capacità di andare oltre tabù e pregiudizi.
S come Silenzio, di Patrizia Palmisano
Amo il silenzio. Il silenzio fa ascoltare quello che hai dentro. Rabbia dolore amore tenerezza. Il silenzio mette in contatto con sé stessi. Solo se si è capaci di silenzio si può ascoltare. Le donne sanno stare sole, sono sole, è un universo parallelo in un mondo che abitua alla forma all’apparenza, al frastuono. Le donne piangono in silenzio i loro lutti, con dignità, con la dignità di chi partorisce figli che ci hanno detto nel dolore. Il silenzio è ascolto. Ma il silenzio delle donne non viene ascoltato. Siamo sante, martiri, schiave, mogli, madri, amanti, sorelle, amiche. Per sentire il silenzio delle donne bisogna imparare ad ascoltarne l'urlo. Per sentire l'amore bisogna fare silenzio e chiudere gli occhi. Fuori c'è molto frastuono, il silenzio si perde, il rumore dell'astio, del potere che sovrastano l'ascolto. E senza quello non esiste niente soprattutto l'empatia.
S come Sorriso, di Veronica Rodonò
Sorriso da definizione potrebbe sembrare solo un’espressione facciale che manifesta serenità, benessere e apertura nei confronti di un'altra persona, felicità, gioia o divertimento. In realtà, non è soltanto un’espressione provocata dal movimento dei muscoli ma è molto di più: il sorriso, se sincero, è contagioso, porta allegria non solo a chi lo dona ma soprattutto a chi lo riceve. Secondo degli studi è infatti terapeutico: aiuta ad affrontare con più leggerezza un trauma così come allieva ed allontana, anche se a volte solo temporaneamente, preoccupazioni e dolori. Ormai si sente, infatti sempre più spesso, parlare di “Terapia del Sorriso” come “attività professionale” e, anche se a volte si è scettici, di clown therapy soprattutto nei reparti pediatrici o nelle case di riposo. Questo proprio perché è inutile negare che: “iniziare una giornata sorridendo sicuramente fa affrontare a te, o a chi hai accanto, le difficoltà giornaliere in maniera differente e magari positivamente”. Come diceva, infatti, il teologo Samson Raphael Hirsch: “Un sorriso non costa nulla ma dà tanto”. E allora, cosa ci costa donare un sorriso? Forse da ora in poi, pensando a ciò che un sorriso può comportare nella giornata di chi abbiamo accanto, la mattina proveremo a “donarne qualcuno in più”. Stiamo però attenti che un sorriso può anche essere finto o a volte può nascondere più dolore di quanto si possa immaginare. Una persona, pur di non deluderti o farti soffrire può infatti “nascondersi dietro un falso sorriso”. L’importante è sempre e solo riuscire però a trasformare le cicatrici in bellezza, la tristezza in una grande forza e, quindi, in uno splendido Sorriso.
S come Speranza, di Roseline Eguabor
Ecco dieci punti per riflettere su come costruire oggi una speranza per tutte le donne:
- Essere donna non vuole dire essere privata della propria libertà. Gran parte delle donne non hanno questa libertà.
- Educare e investire sulle donne vuole dire educare la società, le donne migranti non devono essere abbandonate.
- La gloria più grande nel vivere non sta nel non cadere mai, ma nel rialzarsi ogni volta che falliamo o cadiamo. Questo è quello che ci insegnano le persone con cui abbiamo che fare ogni giorno nella nostra vita, nei posti di lavoro, le persone costrette ad abbandonare i propri paesi di nascita.
- Le difficoltà spesso preparano le persone comuni a un destino straordinario, per cui dobbiamo avere fiducia e dare spazio alle persone che in questo momento si sentono abbattute e scoraggiate.
- Così lontani e così vicini, non avere timore di conoscere il tuo prossimo, si dici che la terra, che gli stati sono fatti di confini, ma penso che quelli più pericolosi siano quelli della nostra mente e dei nostri cuori e tutto questo può solo causare odio verso gli altri.
- È strano che nel 2024 non comprendiamo che emigrare fa parte della vita umana, l’uomo è sempre alla ricerca di migliorare la sua condizione di vita, persino gli animali comprendono queste realtà fondamentale, perché lo fanno quando sentono la necessità di farlo.
- Mangiare è necessario, la mia domanda è di cosa ci nutriamo e che cosa leggiamo? Qui entrano in gioco le fake news, quale è il nostro punto di vista riguardo le cose che oggi ci girano intorno?
- Diversità è inclusione. La diversità è un valore aggiunto, è una ricchezza ed è un fatto naturale che deve essere apprezzato a prescindere dal paese di provenienza. Siamo tutti uguali, fatti dello stesso colore del sangue e dello stesso colore delle lacrime.
- La tratta esiste ancora, non dobbiamo mai dimenticarlo anche se la pandemia l’ha fatta sembrare scomparsa. Le donne vittime di tratta sono persone che lottano giorno e notte sperando in una via di uscita. Nell'ultimo anno il mondo ha osservato donne all'avanguardia superare gli ostacoli della loro epoca e tirare fuori da sé qualcosa di nuovo, un’energia che non c’era mai stata prima.
- I migranti sono persone con mille risorse che spesso non sono state apprezzate mentre bisognerebbe offrire loro le stesse opportunità per realizzarle.
S come Soglia, di Anna Bucca
Soglia porta con sé l’idea di una transizione.
Non separa come la frontiera o il confine ma mette in comunicazione due parti: l’esterno con l’interno, il dentro con il fuori, ciò che ci appartiene con ciò che ancora non ci è prossimo. La soglia è quel momento che precede un avvenimento, una manifestazione, una condizione: tante volte viene evocata per indicare quando inizia qualcosa, definendo la soglia del dolore o quella della felicità, la soglia della sopportazione.
La soglia rappresenta il passaggio, l’attraversamento: è lo spazio dell’accoglienza, è il luogo di mezzo dove si creano le condizioni per incontrarsi, dove è possibile ospitare.
Nell’area del Mediterraneo, ci sediamo sulla soglia di casa per parlare con le altre persone, soprattutto altre donne, per socializzare e raccontarci, per farci delle confidenze, per costruire fiducia, per osservare quel che succede in strada.
Si accoglie attraverso una soglia fisica - una scuola, una casa- o attraverso quella delle nostre relazioni quotidiane.
Una soglia è sempre a rischio di fragilità: può rappresentare entrata e uscita, può significare ricezione e rifiuto.
Per questo la soglia è anche un luogo di contraddizione: può essere il limite che non si deve oltrepassare ma anche lo spazio che si deve percorrere per incontrare gli altri.
Se ci si avviciniamo un piccolo passo alla volta, possiamo accogliere con consapevolezza, possiamo costruire una relazione, anche con il rischio di fraintendere l'altro, ma con la speranza di trovare punti di maggiore vicinanza.
E solo nel mezzo possiamo costruire accoglienza e ospitalità, che sono atti che non avvengono fermandosi non sulla soglia ma attraversandola.
S come Sorellanza, dello Spazio Donne ZEN - Associazione Handala
Sorellanza è un legame che unisce le donne tra loro e migliora il rapporto con altri soggetti e gruppi che condividono pratiche di emancipazione e conquista di diritti.
È lo scambio reciproco di esperienze, conoscenze e gesti di cura.
È andare verso le altre, confrontarsi per aggiungere valore ai nostri rapporti.
È unire le voci, le idee, le lotte.
Sorellanza è sostenersi e riconoscersi nelle differenze.
La sorellanza è una forza, che la natura ci ha dato, per alimentare gioia, amore, rispetto ed empatia.
La sorellanza si trasforma facilmente in pratiche originali, creative, giocose e gioiose. Rende unite nelle lotte e felici nella conquista di libertà.
La sorellanza diventa più forte se condivisa e diffusa, quando si trasforma in sostegno verso altre donne, quando trova le parole giuste per comunicare all’esterno il senso di una crescita collettiva, quando invade le città per rivendicare diritti ed esprimersi liberamente.
Quando la sorellanza diventa pratica politica e relazionale, inclusiva, in grado di coinvolgere tutte le persone, abbatte tutti i vincoli e le costruzioni sociali.
Sorellanza è quel modo di stare insieme, che ci aiuta a lasciare il nostro posto, non sempre sicuro, per metterci in gioco, per arrivare ad una rivoluzione basata sulla 'cura', delle persone e della natura, contro il patriarcato e il capitalismo.
S come Sorellanza, di Francesca Barbino
- f. [der. di sorella]. – Il rapporto naturale tra sorelle, e il vincolo d’affetto che le unisce. Più comunemente in senso estensivo, per indicare il reciproco legame tra due o più cose (il cui nome sia di genere femminile) aventi la stessa origine, le stesse caratteristiche: la sorellanza delle nazioni mediterranee. Con significato più recente, nato negli anni ’70 del Novecento, all’interno dei movimenti femministi, sentimento di reciproca solidarietà fra donne, basato su una comunanza di condizioni, esperienze, aspirazioni: il femminismo aspirava anche a creare un nuovo spirito di sorellanza tra le donne.
Suggerirei a Treccani che ancora lo ispira, e chissà forse più forte: per chiunque si identifichi come tale, e affinché nessuna più venga meno. Affinché i nostri corpi possano esistere in uno spazio privo di controllo, affinché si liberi pure chi dovrebbe esercitarlo.
Sorellanza che è sinonimo di cura, e quanto le ho odiate entrambe queste parole!, ma quanto risuonano sempre come unica modalità di esistere.
“Quando lo slogan «la sorellanza è potente» venne usato per la prima volta, fu fantastico” scrive bell hooks. E così è ancora, ogni altra volta, una vibrazione che sveglia e rassi-cura.
S come Sofferenza, di suor Antonella Orlando
Dal tardivo latino, sufferentia «sopportazione, pazienza», o dal lat. Popolare “sufferire”, o dal latino classico “sufferre” «portare su di sé, sopportare, la parola sofferenza fa paura e nella equilibrata maturità umana e cristiana esente da masochismo, nessuno vorrebbe la sofferenza.
Lo stesso Cristo, nell’orto del Getsemani, di fronte alla morte, pur accettandola, soffre fino a sudare sangue. Ma proprio alla luce dell’esperienza del Cristo sappiamo che la sofferenza della morte è la porta della Resurrezione, della Vita Nuova che in Cristo siamo chiamati a vivere e godere. Ogni tipo di sofferenza, fisica, affettiva o spirituale è un pò morire al proprio benessere, al bisogno di amore e di felicità, alle proprie idee, alle varie attese della propria sensibilità, è partecipare al mistero della morte.
Ma prima ancora della lettura cristiana, la parola sofferenza ha una connotazione prettamente umana e soprattutto femminile, se pensiamo alla situazione della donna partoriente che porta su di sé il peso della gravidanza, più o meno facilmente e serenamente, secondo le condizioni di salute, ma al momento del parto naturale comunque, inevitabilmente, avverte tutte le doglie del parto e a volte molto pesanti ma dopo la nascita della figlia /o è inondata di gioia, di soddisfazione, di pienezza.
E come dice lo stesso Gesù: “…la donna, quando partorisce, è nel dolore, perché è venuta la sua ora; ma, quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più della sofferenza, per la gioia che è venuto al mondo un uomo.” (Gv 16,20-23). Ecco… la sofferenza allora è simile o paragonabile ai dolori del parto che la donna inevitabilmente affronta se vuole far nascere il figlio o figlia che porta in grembo. Nella natura della donna e della gravidanza vediamo riflesso il mistero di morte e resurrezione, se viviamo la sofferenza nella sua vera realtà che supera il dolore, tollerandolo con serenità, sopportandolo e portandolo con coraggio, sapendo che dalla accettazione e offerta per amore di esso, nasce una nuova vita, la maturazione di una nuova visione, essenziale e solidale della vita.
La Donna partoriente è profezia di Resurrezione! Infatti la sofferenza accettata per amore e con amore, come la donna partoriente, genera la comprensione e la solidarietà verso coloro che provano la tua stessa o simile sofferenza, genera la capacità di cogliere e accogliere quello e quanto l’altra o l’altro soffrono, anche della tua possibile nemica/o. Ti offre la possibilità di entrare in simpatia e/o in empatia con l’altra/o e potere così sentirti e saperti “sorella o fratello” che porta insieme il peso, il dramma o la tragedia dell’altra/o ; ti offre la possibilità di aiutare, nell’ascolto e nella comprensione, anche l’altro a portare il proprio peso… ed insieme camminare con fiducia e speranza verso una vita nuova, nella ricerca dell’essenziale e di ciò che non muore, nell’esperienza che la solidarietà che ne nasce è medicina, forza, gioia di sorellanza o fraternità, ed anche perdono. Paradossalmente… la sofferenza può diventare, se la sappiamo gestire con la l’aiuto della Grazia di Dio e con la pazienza, maturità umana, ricchezza e pienezza di vita umana ed evangelica.
T come Terra, di Anna Pia Viola
Diverse espressioni linguistiche sono rivelative di cosa intendiamo e come viviamo la Terra. “Avere i piedi per terra”, ad esempio, rimanda alla caratteristica di essere realistici in un progetto che ha ancora diverse variabili da realizzare. “Toccare terra”, nell’ambito marinaro soprattutto, esprime il raggiungimento di un porto e dunque l’esito felice di una traversata o di un viaggio. “Fare terra bruciata attorno” è un modo di dire che rende perfettamente l’idea di togliere ogni sostegno, appoggio e compagnia ad una persona o ad un progetto.
Bastano questi pochi esempi per indicare come “Terra” sia per noi molto più che un termine che indica un pezzetto di campo coltivato o il contenuto di un vaso da fiori in terrazzo. Terra significa solidità, sostegno, cura.
Il significato più profondo, però, ce lo consegna la sapienza antica che ha legato la Terra alla Madre.
Se il cristianesimo dei primi secoli si è confrontato con i miti delle culture pagane e a questi ha dato un impulso nuovo riconducendo la fertilità dei campi alla premurosa cura da parte della Provvidenza e allo sguardo materno della Madonna, da qualche decennio la sensibilità nei confronti della Terra è cresciuta presso i fedeli cristiani grazie all’attenzione mai sopita, da parte anche dei non credenti, verso ciò che è “natura”. Papa Francesco da anni ci sollecita ad un cambio di passo che mette al centro delle nostre attenzioni la cura e la custodia della Terra.
Custodire e curare sono i verbi propri del femminile e che creano alleanza fra l’uomo e la Terra. Non si tratta di un comportamento esterno, quasi estraneo, dell’uomo nei confronti di un ambiente da tutelare, ma al contrario è la consapevolezza che la Terra ci precede e dunque è essa a custodire l’uomo e a prendersene cura come nutrimento e medicamento. Chi custodisce qualcosa sa di non essere padrone di quel bene e di doverne rispondere; prendersi cura di qualcosa, e dell’ambiente in particolare, trasforma lo sguardo in attenzione, delicatezza e concretezza. La grave colpa dell’umanità è quella di non vivere in alleanza e armonia con il Creatore pretendendo di prendere il posto di Dio o, peggio ancora, di esserne un diretto rivale. In questo modo ci si comporta da devastatori dell’ambiente e dittatori della libertà altrui, impedendo agli altri di vivere in salute e circondati dalla bellezza. La Terra è per noi il grembo che ci accoglie alla vita e curarla significa anche riprendere a coltivare le terre dei nostri nonni per imparare a coglierne lo sviluppo e a garantirne il miglioramento. Dobbiamo impedire che la Terra soffochi, si perda con l’erosione e venga violentata dal fuoco.
Sguardo, valorizzazione e scelta, sono i passaggi essenziali per riabbracciare la Madre Terra ferita e lasciare che sia essa a rigenerarsi per prendersi cura di noi.
Imparare a vedere la bellezza della vita che in un filo d’erba si fa strada fra le pietre, nelle crepe dell’asfalto, riuscire a fermarci dinanzi alla fatica della vita che avanza, è il presupposto per farci cambiare atteggiamento trasformandoci da consumatori in autentici curatori della Terra come l’unica nostra risorsa.
V come Valore, dei giovani del Liceo Classico e del Liceo Linguistico dell’Istituto G.B. Montini - Milano
Ci presentiamo: siamo un gruppo di liceali dell’Istituto G.B. Montini, scuola cattolica paritaria di Milano. Da anni, durante l’estate, svolgiamo diverse attività di volontariato e questa settimana ci troviamo nel quartiere Z.E.N. di Palermo, accolti dalle Suore di Carità con le quali condividiamo esperienze di apostolato.
Siamo stati invitati a partecipare a questa iniziativa e abbiamo individuato una parola significativa per noi con la quale esprimere la nostra visione di donna.
Valore è la parola scelta. Essa ci ricorda il peso di ciò che conta nella vita: ciò che è prezioso, irrinunciabile, da difendere sempre. L’ essere donna è un concetto che va colto non più come “ciò che fa comodo all’uomo poiché procrea e fa trovare un pasto caldo a ritorno dal lavoro” ma piuttosto con un senso di gratitudine per tutto l’amore che mette in ogni piccolo gesto senza chiedere niente in cambio, soffrendo e perdonando per tutte le volte in cui è stata screditata e definita debole o non in grado di riuscire a fare altro se non quello.
Ad oggi la figura della donna è essenziale e indispensabile soprattutto nel dare senso alla vita e nel prendersene cura anche nei momenti più importanti quali la nascita e la morte. Ed infatti possiamo affermare che la forza della donna è una forza quotidiana che goccia dopo goccia ha segnato la storia.
V come Voce, di Cinzia Mantegna
La forza dirompente della donna inizia dal suo primo incontro con il mondo, generata dalla potenza amorevole di un’altra donna. Sua madre. Non c'è forza e potere più grande nella generatività che non si limita solo a quel momento gioioso e doloroso d'amore. Di madre in madre, da donna a donna, da madre in figlia si tramandano comportamenti, modi di fare, codici che parlano di trame, intrecci, legami eterni. La cura, l’attenzione, la tenerezza, il pensiero, la generosità di una donna diviene nella sua ripetizione il modo unico ed esclusivo della sua essenza. La sorellanza che accomuna le donne diviene così un modo semplice, segreto, intimo nel riconoscersi. Non hai bisogno di parole per vivere questa dimensione unica e irripetibile che accomuna le donne. E questa forza parla della potenza della donna capace di fare cose straordinarie. La donna può essere silenzio quando ascolta con comprensione, dedizione, compassione o quando operosa organizza, prepara, accompagna, aiuta, pensa, scrive, intuisce, sostiene, dona. Può essere silenzio quando soffre e subisce la rabbia e la violenza di chi la vuole sottomessa, costretta, muta. Ed allora le si toglie la parola, la voce. Quella voce che spaventa perché è carica di qualcosa di straordinario, irripetibile inimitabile, incomprensibile: la forza della donna.
Z come zolla, di Mara Torricelli
Nei miei lunghi anni da professoressa, ho parlato - parole leggere - con una sola speranza: che un seme (alla vista secco e umile) cadesse in una zolla di terra. Che essa lo catturasse e bevesse quella goccia d’acqua miracolosa, che Dio, o chi per lui, volesse far cadere. Poi tutto sarebbe venuto da sé. Da sé, ma non senza dedizione e ansia: se non ripariamo la zolla fra le mani, se non ne abbiamo cura, può accadere che il vento furioso la disperda, seccandola per sempre.
Così, ho parlato e spiegato, pensando di essere una zolla. Una semplice zolla di terra. Ho guardato sempre in alto, magari vedendo le stagioni che si rincorrevano dai vetri, negli alberi del parco, o cogliendo i riflessi sulla fronte dei ragazzi. Qualche bagliore negli occhi.
Spesso ho ricacciato le lacrime perché mi sono sentita incompresa, o delusa, o sola. Anche se si è troppo in alto, ci si sente soli. Ho pensato alla madre-terra. Senza pretese o tracotanza, ho pensato che anch’io fossi la zolla di terra. Quella a cui non si pensa, a cui non si dà tanta considerazione, vedendo il bel campo arato con i gabbiani che lo sorvegliano bramosi dall’alto. Lei, la singola zolla.
Ogni anno ho atteso la stagione della semina: cominciava ad ogni inizio di anno scolastico, quando i corridoi deserti si riempivano di voci, di grida, di cuffiette nelle orecchie, di cellulari in mano, di vivacità, spesso incontenibile. Ho atteso il sole pallido dell’autunno, per raggiungere la stagione tiepida della semina. Appena i primi raggi di sole tornano timidamente a scaldare le giornate umide e il vapore cresce appena alzandosi dalla terra. Le zolle rovesciate sono nere, nere, le avete mai guardate?
Nere perché grasse, pronte per la semina. E così cominciavo a parlare: la storia, i tempi antichi, le lettere in greco, geroglifico e sumero che hanno fatto la storia.
Dietro agli occhi attenti dei ragazzi, cosa c’era? Non ho mai saputo dirlo con precisione. Ma avevo uno strumento in mano: il seme. Così ho sempre pensato che lì ci potesse essere la vita, silenziosa, incompiuta. Ma c’era. Una forza vitale che andava posta fra i chicchi di terra, la speranza, che qualche seme attecchisse, mi ha fatto andare avanti.
Ho avuto inevitabili ferite di delusione, ma ho avuto anche sorprese infinite, in cui il cuore frullava di nuovo come mille farfalle: talvolta era, dopo tanti anni, un biglietto stropicciato sotto lo zerbino di casa mia, al portone: uno dice “Grazie prof, per quello che mi ha dato”. I semi hanno i loro tempi, per nascere: ci sono semi che aspettano mesi per attivarsi, perché vivono in zone dove le condizioni non sono sempre favorevoli per crescere. Come ci spiega la rivista Focus:” i semi sanno aspettare, e capiscono quando è il momento giusto per cominciare il loro lavoro. Non solo: anche i semi "risvegliati" sono capaci di aspettare e bloccare la loro germinazione”
Così ho continuato ad innamorarmi di nuovo. Magari pensavo di poter essere una zolla per sempre, che, accogliendo la magia del seme, lo può restituire come germoglio.
Ho pensato alla parabola del seminatore: «…come un uomo che getta il seme nella terra; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa. Poiché la terra produce spontaneamente, prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga. Quando il frutto è pronto, subito si mette mano alla falce, perché è venuta la mietitura».» (Vangelo secondo Marco, 4,26-29)
Ho pensato alla grande madre degli indoeuropei: una donna formosa, ventre e seni accentuati, per l’immaginario della madre-seminatrice, appartenente all'immaginario archetipico delle popolazioni matriarcali. Negli indoeuropei, nei minoici e micenei, e poi ancora in tutte le altre popolazioni a venire, la grande madre è collegata alla terra, alla zolla, quindi. Da lei nasce qualcosa. Nasce la vita. Così ho insegnato i miei lunghi anni pensando al mio compito di insegnante come a quella di un seminatore.
Senza chiedermi chi decide che il seme attecchisca o no…
La Natura? Dio? O meglio, entrambi?