Ha fatto molto rumore nei giorni scorsi l’approvazione, da parte del consiglio comunale di Verona, di una mozione, proveniente dalla maggioranza leghista, fortemente critica nei confronti delle pratiche abortive e che dichiarava Verona «città a favore della vita». In particolare ha suscitato unanime indignazione all’interno del Pd, a livello nazionale, il fatto che la capogruppo dem nello stesso consiglio comunale, Carla Padovani, abbia votato a favore.
«Nella notte Verona e le sue cittadine hanno subito uno schiaffo inaccettabile», ha dichiarato la deputata veronese Alessia Rotta, vicepresidente vicaria dei deputati del Partito Democratico. E la deputata dem della Commissione Affari Sociali, Giuditta Pini: «Ieri il consiglio comunale di Verona ha approvato una mozione proposta dalla maggioranza (…) contro la legge 194, ma più in generale contro il diritto delle donne ad autodeterminarsi». Quanto alla Padovani, la deputata aggiungeva: «Ecco non userò molte parole: non credo che sia una persona che possa stare nel Pd (…). Perché per quanto possiamo essere plurali, esistono dei limiti che qualificano anche lo stare in una comunità e credo che lei li abbia allegramente superati».
Sono andato a leggere il testo della mozione. Per la verità, non è «contro la legge 194», anzi esordisce proprio con la denunzia della sua parziale violazione e con il proposito di porvi rimedio. E si fa riferimento all’art.1 della legge: «Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio».
All’art. 2, poi, la legge parla dei consultori, i cui compiti, là elencati, sono tutti orientati a «far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza», come recita il punto d), sintetizzando il senso di quelli precedenti.
Anche l’art. 5 va in questa direzione: «Il consultorio e la struttura socio-sanitaria (…) hanno il compito in ogni caso, e specialmente quando la richiesta di interruzione della gravidanza sia motivata dall’incidenza delle condizioni economiche, o sociali, o familiari sulla salute della gestante (…), di aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza, di metterla in grado di far valere i suoi diritti di lavoratrice e di madre, di promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto».
Insomma, la legge 194 pone come un valore la vita del nascituro e, pur consentendo l’interruzione di gravidanza a certe condizioni, sembra considerarlo una misura estrema, da evitare per quanto possibile, garantendo alla donna, prima del diritto di eliminare il figlio che porta in grembo, quello di farlo nascere. Da questo punto di vista, la mozione del consiglio comunale di Verona non è certo un attacco alla legge 194, anzi ne propone un’applicazione integrale, finanziando associazioni o progetti che possano accompagnare e sostenere le donne nell’impegno della maternità.
Perciò, che il Pd sostenga «senza “se” e senza “ma”» questa legge, come ha energicamente sottolineato il segretario Martina, non dovrebbe portare di per sé alla censura della scelta della consigliera Padovani. Tanto più che il Pd è nato come un tentativo di alleanza, sotto il segno della democrazia, tra i socialisti e i cattolici, di cui è nota l’avversione di principio all’aborto in quanto tale, pur nel rispetto della legge vigente che lo consente.
In realtà la legge 194 è diventata, nell’immaginario collettivo, il simbolo della libertà delle donne. Il problema della tutela della vita del nascituro, che il testo legislativo poneva – almeno formalmente – in primo piano, si è eclissato a favore dell’altro, enfatizzato dalla cultura oggi dominante, del diritto della donna di disporne con una sua scelta insindacabile. È questa libertà soggettiva della madre, agli occhi di molti, il solo valore da tutelare. Tirare in ballo il riferimento, implicito nel testo originario, a quello oggettivo (la vita del bambino), non solo appare a questo punto fuori luogo, ma viene visto come un limite inaccettabile al diritto della donna. Da qui le reazioni violente degli esponenti del Pd e delle femministe.
Ora, io nella mia esperienza ho incontrato due diversi tipi di fautori della legalizzazione dell’aborto. Alcuni sono onestamente disposti a riconoscere quello che tutti gli scienziati, anche abortisti, ritengono indiscutibile, e cioè che, stando ai dati della biologia, quello che si uccide è comunque un essere umano e non differisce, qualitativamente, dal neonato per cui nutriamo tenerezza e senso di protezione. Anche ai loro occhi l’aborto è un male. Solo che, secondo loro, l’interesse dell’embrione a sopravvivere va bilanciato con quello della donna a non dover ricorrere alle mammane, con tutti i rischi che accompagnano l’aborto clandestino.
Francamente non sono d’accordo che i due interessi possano essere messi sempre sullo stesso piano e distinguerei accuratamente, perciò, le diverse fattispecie che possono presentarsi. Ma con queste persone ho potuto concordare, alla fine, che l’interesse di tutti è rimuovere gli ostacoli alla maternità, investendo per esempio a favore della famiglia una parte consistente dei soldi che spendiamo per gli armamenti.
Per altri, invece – e sembra questa, sfortunatamente, la posizione ufficiale del Pd –, ciò che conta veramente è la libertà della donna. Quanto al nascituro, non potendo negare che l’embrione sia geneticamente un essere umano (lo dice il Dna), i teorici di questa linea dicono che però non tutti gli esseri umani sono persone, e dunque meritevoli di rispetto e di tutela. E i bambini non ancora nati non lo sono, perché manca loro il requisito dell’autocoscienza, essenziale perché ci sia la persona. Perciò ucciderli non è un omicidio e la donna ha il pieno diritto di farlo. Chi glielo contesta, la mortifica.
Solo che questa divaricazione – condannata a Verona nella mozione della Lega e da tanti cattolici che vedono in essa la paladina della vita – tra esseri umani di serie A, persone degne di rispetto, e individui umani di serie B, che non meritano la stessa tutela, per una strana coincidenza è opposta e simmetrica all’idea della Lega, secondo cui gli esseri umani sono di serie A solo se cittadini, mentre se stranieri sono di serie B. In entrambi i casi siamo di fronte al paradosso di una difesa della vita che discrimina gli esseri umani in base a dei requisiti decisi a tavolino: nel primo caso l’uscita dal grembo materno e l’esercizio dell’autocoscienza, nel secondo la cittadinanza. E il bello è che da ciascuna delle due parti ci si indigna contro l’altra!
Suona come una posizione di rottura verso entrambi questi strabismi la posizione della Chiesa, che continua a ripetere che la vita umana va rispettata senza alcuna condizione, per il solo fatto di essere umana, dalla gravidanza fino alla morte naturale. E che una civiltà che seleziona gli esseri umani in base a criteri diversi dalla loro umanità è solo una barbarie a cui ci siamo purtroppo abituati.