Padre Santo, amatissimo Papa Francesco,
eccoci qui, accanto a Lei, nel nostro cenacolo, a dirLe ancora una volta il nostro ringraziamento e il nostro affetto, per il Suo modo di essere Vescovo di Roma e di presiedere le nostre Chiese nella carità. Lo facciamo, se possibile ancora più convintamente oggi, mentre i marosi di forze estranee alla logica del Vangelo tentano di abbattersi sul Suo ministero e sulla Sua persona per bloccare il Suo anelito ad una Chiesa testimone audace del Vangelo, con Cristo e come Cristo povera, aperta, in uscita, amica degli uomini, «di tutti e in particolare dei poveri»[1].
Siamo raccolti qui in quanto chiamati «a stare con Gesù», ad essere con Lui: siamo vescovi, presbiteri, diaconi, religiosi e religiose, consacrati e consacrate, seminaristi. Ma prima di tutto – prima di ogni nome e di ogni ministero e servizio – siamo qui da donne e da uomini appassionati del Vangelo, che si sono lasciati affascinare dalla Bella Notizia che è Gesù di Nazareth e a Lui hanno consegnato la vita. Non si tratta di un privilegio o di un primato sui nostri fratelli nella fede – perché siamo tutti «discepoli del Signore»[2], come Lei ama dire – ma di un servizio offerto in forza di un desiderio, come Lei stesso ha affermato un giorno con semplicità e potenza: «Io faccio il prete. E mi piace»[3].
Santità, oggi Lei ci incontra in questa Cattedrale, dove è custodito il corpo del Beato martire padre Pino Puglisi, figlio speciale di questa Chiesa palermitana, di questo presbiterio, ucciso dalla mafia perché fedele al Vangelo, povero di tutto, anche della vita, per consegnare incessantemente il Vangelo ai più piccoli e alle nuove generazioni. Don Puglisi come sacerdote era un uomo compiuto, plasmato dal Vangelo; viveva con serenità e bellezza il suo celibato, appagato pienamente dal dono totale di sé. Per questo la sua testimonianza presbiterale era efficace, attrattivo il suo sacerdozio, senza nessun alone di moralismo e di supponenza sacrale. Adorava, onorava e serviva Gesù presente nel Vangelo proclamato, nel Pane spezzato e nei Poveri delle comunità che ha servito lungo il suo ministero presbiterale.
Non c’è servizio nella Chiesa, non c’è ministero ordinato che possa prescindere da questa realtà fondamentale, quella di una umanità libera, serena, gioiosa, la stessa manifestataci da Gesù di Nazareth nella sua vita in mezzo a noi. È questo, credo, uno dei significati più forti del cambiamento di prospettiva posto dal Nuovo Testamento rispetto all’Antico a proposito del sacerdozio. Superare la sacralità, la ‘distinzione’ con i suoi segni espliciti, voleva dire per i primi autori cristiani riportare il servizio di guida del popolo alla concretezza del discepolato, alla radicalità del nostro essere anzitutto donne e uomini posti alla sequela del Signore.
Oggi siamo chiamati – come Lei ci ricorda – ad una «conversione pastorale e missionaria» (EvG 25). Dobbiamo cioè, ri-volgerci al nostro gregge, agli altri, ai nostri fratelli, per essere pastori. Pastori di una «pastorale dell’orecchio», di un ministero dell’ascolto: delle gioie e delle sofferenze, delle fatiche e dei desideri, dei segni di novità e delle criticità dei giorni che viviamo[4]. Disponendoci, come Lei ci ha insegnato, davanti al nostro popolo, per guidarlo e indicargli il cammino; ma anche in mezzo, per mantenere il gregge unito negli sbandamenti; e pure in coda, dietro a tutti, per raccogliere gli ultimi, per far sì che nessuno rimanga indietro. Senza pretese di dominio, perché nell’ascolto impariamo le strade nuove e promettenti proprio dalle sorelle e dai fratelli che ci sono affidati. Sono loro ad avere quel fiuto che la tradizione ha chiamato ‘sensus fidei’ e che è il criterio ultimo dell’autenticità di ogni magistero.
Ecco, sensus è un’altra parola chiave per il nostro ministero. Non siamo chiamati ad essere gelidi razionalisti, maestri di logica o di morale, bensì madri e padri calorosi, toccati nell’intimo dalla commozione degli splanchna – delle «viscere materne» di Dio – provata da Gesù davanti alla folla smarrita. Qualcosa vibra dentro, nell’utero delle madri. ‘Nun po stari’, si dice in siciliano per indicare una inquietudine indominabile e viscerale, perché una madre ‘non può stare’ quando sente, anche a distanze siderali, la sofferenza e la fatica dei suoi figli. Ecco, Papa Francesco, Lei ci ha richiamati a questo: a fare i conti con la rivoluzione della tenerezza che discende direttamente dal Vangelo, e che ci chiede di essere donne e uomini di misericordia, di prossimità e di affetto.
Donne e uomini della relazione, del dialogo instancabile. Come Lei ha sintetizzato: discepoli, profeti e pastori. Perché non abbiamo nessuna ragione da far valere, nessuna dottrina astratta da difendere, ma l’amoris laetitia, la letizia dell’amore, da annunziare e da portare con dolcezza. Ecco il senso della predicazione, che vogliamo sia liberante e fresca come il Vangelo; della Confessione, che intendiamo con Lei come epifania del perdono, ascolto umile e mai giudicante, annunzio della misericordia di Dio per l’uomo peccatore; della celebrazione dell’Eucaristia, come mistero della prossimità di Dio, del suo essersi coinvolto con noi, con l’odore, con la ‘puzza’ delle sue pecore, di ogni luogo e di ogni tempo, «fino alla fine» (Gv 13, 1), fino all’estremo dell’amore. Che vuol dire rincorrere l’altro anche quando intraprende strade sbagliate, vie impervie; significa ‘perdere il tempo’ con chi vuole fuggire, con chi non ce la fa a restare, mettendo anche in conto il fallimento, l’incomprensione e forse anche l’avversione. E tutto questo – come Lei sempre ci ricorda – in quello spirito di comunione e di fraternità pastorale che è un’ascetica capace di donare ricchezza, e che è elemento integrante della spiritualità dei preti e delle fraternità presbiterali.
È bello stasera essere qui accanto a Lei che custodisce nell’amore e nell’unità noi, Vescovi della Sicilia, i Cardinali e gli altri Vescovi qui convenuti. Ci sentiamo confortati nel nostro compito di Pastori dalla Sua benedizione, da Lei, Vescovo di Roma, che ci presiede nell’amore.
Sono qui il clero di Palermo e tanti altri sacerdoti delle diocesi siciliane, per dirLe: «Papa Francesco, siamo con Lei. La sosteniamo con la preghiera. E ci sentiamo sostenuti dalla Sua preghiera e dalla Sua conferma».
I diaconi permanenti, i monasteri di clausura, le religiose e i religiosi, tutte le varie forme di vita consacrata, si stringono a Lei stasera e rinnovano spiritualmente nelle Sue mani la loro professione: vivere le realtà profetiche e definitive nella concretezza del prendersi cura degli ultimi, dei cuori e delle case, della preghiera silenziosa che riempie la giornata.
Ed infine sono qui i seminaristi, tutti i seminaristi della Sicilia, circa 200, nel 40° del Dialogo dei Seminari di Sicilia. Padre Santo, Lei conosce la trepidazione di noi Vescovi nel presentarLe i nostri Seminaristi, nel chiedere per loro la preghiera e una benedizione speciale, perché sono la Chiesa nel mondo di domani. È la passione per Cristo e per la Chiesa, che lo Spirito suscita in loro, la nostra speranza e il nostro augurio. Una Sua parola segnerà il loro cammino, illuminerà la loro strada. Questo incontro di stasera lo ricorderanno e lo racconteranno.
Amato Santo Padre, La ringraziamo con tutto il cuore e invochiamo con Lei La Madonna della Vicinanza. Sciolga i nodi delle nostre fatiche, nei momenti di sconforto e di delusione a cui non possiamo sfuggire, nelle persecuzioni e nei dolori silenziosi, che ci configurano alla passione del Signore (De Lubac). Per il resto, tutto è nelle mani di Dio e in Lui «tutto è grazia». A Lui, mistero insondabile e vicinissimo, leviamo insieme a Lei, Santità, la nostra lode e la nostra invocazione. Sappiamo di essere poveri operai e non architetti o capomastri; ministri, non salvatori. Umili sentinelle di un futuro che appartiene a Dio, debitori verso un passato che ci ha costituiti, immersi in un presente che ci chiede fedeltà, sicuri che nulla può mai essere perduto nella memoria amante e creatrice di Dio.
La Madonna che a Siracusa ci ha donato le sue lacrime ci trasformi ogni giorno in pastori che come Lei e con Lei si fanno carico del dolore del mondo e asciugano le lacrime dei fratelli. Le lacrime – Lei ci ha insegnato – sono «gli occhiali per vedere Gesù»[5]. La testimonianza presbiterale del Beato martire Pino Puglisi, giudizio e dono per la chiesa Palermitana, ci chiami alla conversione e alla penitenza e ci rilanci nell’annuncio gratuito ed audace del Vangelo.
Grazie Papa Francesco! Con Lei e come Lei vogliamo dire a Colui che ci ha chiamato, al popolo di Dio e al mondo: «Sono prete, religioso, seminarista, consacrato. Lo faccio, e mi piace!».
[1] Giovanni XXIII, Radiomessaggio, 11.9.1962. Cfr. Lumen gentium, 8, 3.
[2] Francesco, Omelia, 14 marzo 2013.
[3] Francesco, Intervista rilasciata a Ferruccio de Bortoli, in L’ Osservatore Romano, 5 marzo 2014.
[4] Cfr. Giovanni XXIII, Gaudet Mater Ecclesia, 11 ottobre 1962.
[5] Francesco, Omelia, 2 aprile 2013.