In un momento senza dubbio molto delicato della vita della Chiesa, le dure accuse rivolte al papa da mons. Carlo Maria Viganò, ex nunzio negli Stati Uniti, che ha chiesto, in base ad esse le dimissioni di Francesco, non possono non suscitare un profondo disorientamento in tutto il mondo cattolico. Lo hanno provocato anche in me, che di papa Bergoglio sono sempre stato un estimatore e un sostenitore.
Certo, le modalità dell’attacco frontale del prelato italiano mi sono subito sembrate strane. Ancora oggi, Viganò ribadisce di avere come unico intento la ricerca della verità. Non ho alcun motivo di dubitare della sua sincerità, ma se un membro – tra l’altro molto qualificato – della gerarchia ecclesiastica ha delle ragioni di criticare la correttezza del comportamento passato del Sommo Pontefice (a cui, come vescovo, ha tra l’altro giurato fedeltà), la prima cosa da fare non è esattamente una denunzia pubblica, facendola addirittura coincidere con la sentenza di condanna (le dimissioni). La ricerca della verità suppone un procedimento assai più misurato, che prevede l’ascolto delle ragioni dell’“imputato” e che non si affida alla logica scandalistica del circo mediatico. Il ricorso a quest’ultima potrebbe aver un senso solo dopo aver percorso tutte le altre strade disponibili. Ma di questo, nel caso dell’attacco di mons. Viganò, non c’è alcuna traccia, né egli stesso ne ha fatto minimamente menzione.
Un altro elemento che mi ha subito lasciato perplesso è che mons. Viganò è collegato agli ambienti più conservatori della Chiesa ed è stato tra i firmatari della “Professioneˮ nella quale si afferma che il magistero di Papa Bergoglio diffonde il divorzio.
Resta però la gravità di una denunzia che cade proprio nel momento in cui papa Francesco esprime tutta la sua presa di distanza dal drammatico fenomeno della pedofilia, e che sembra smascherare un suo coinvolgimento nel male che dice di voler combattere. Quali che siano le motivazioni e le scorrettezze dell’accusatore nel presentare questa denunzia, essa deve assolutamente essere presa in considerazione, sulla base del dossier di undici pagine in cui Viganò stesso l’ha esposta.
Che cosa dice dunque l’ex nunzio in questo dossier? Mi rifaccio, per riassumerne il contenuto, all’articolo di un vaticanista noto per la sua serietà, Andrea Tornielli, pubblicato su un quotidiano assolutamente “laico”, «La Stampa» del 29 agosto.
L’accusa mossa a papa Francesco è di avere coperto l’83enne cardinale emerito di Washington Theodore McCarrick, che aveva avuto relazioni omosessuali con seminaristi maggiorenni e sacerdoti, approfittando della loro condizione di subordinati per portarseli a letto. Un comportamento sicuramente abietto, ma che, a voler essere precisi, ha a che fare con il problema dell’omosessualità e non con quello della pedofilia, a cui lo si è frettolosamente ricondotto. Sia chiaro che non dico questo per sminuire la gravità del fatto contestato al cardinale di Washington; è indubbio, però, che omosessualità e pedofilia sono due cose diverse.
Ma andiamo ai fatti prodotti nel dossier. Ciò che stupisce, in primo luogo, è che le accuse contro il cardinale McCarrick risalgono ai pontificati di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. È stato Giovanni Paolo II, nel novembre 2000, a nominare il prelato vescovo di Washinton e poi cardinale, ignorando la lettera di un frate domenicano che riferiva di aver sentito delle voci sui suoi rapporti sessuali coi suoi seminaristi (sempre maggiorenni).
Nuove denunce arrivarono a Roma nel 2006, quando il Papa era Benedetto XVI. A muoverle era un ex prete, Gregory Littleton a sua volta condannato, lui sì, per pedofilia, il quale faceva sapere al nunzio negli Usa di essere stato molestato sessualmente (sempre da maggiorenne) da McCarrick, il quale peraltro ormai era in pensione dall’anno precedente. Viganò, allora alla Segreteria di Stato, preparò un appunto per i superiori, che non risposero.
Nel 2008 circolano nuove accuse di comportamenti impropri di McCarrick e di nuovo Viganò scrive di aver mandato ai superiori un ulteriore appunto. Questa volta, stando sempre al suo dossier, Benedetto interviene, imponendo al prelato, ormai emerito e pensionato, di vivere ritirato e non apparire più in pubbico.
Il dossier di Viganò lascia intendere che sia stato papa Francesco ad annullare questi limiti. Ma, osserva Tornielli, basta cliccare sul web per scoprire che, già durante gli ultimi anni del pontificato di Raztinger, McCarrick, a dispetto delle sanzioni (ammesso che il dossier dica il vero sulla loro esistenza), ha celebrato ordinazioni diaconali e sacerdotali a fianco di importanti porporati della Curia romana stretti collaboratori di Papa Ratzinger, ha tenuto conferenze, e il 16 gennaio 2012 ha partecipato, insieme ad altri vescovi statunitensi, a un’udienza con Benedetto XVI in Vaticano (il suo nome tra i partecipanti viene segnalato nel bollettino della Sala Stampa della Santa Sede).
Ma quel che è più strano, e non collima affatto con il racconto del dossier, è che lo stesso mons. Viganò, divenuto nunzio negli Stati Uniti, partecipa ad eventi pubblici insieme al cardinale McCarrick, anzi il 2 maggio 2012 è tra i presenti a una cerimonia in cui al prelato viene consegnato un premio e non ha alcuna difficoltà a farsi fotografare al suo fianco.
Nel dossier, l’ex nunzio, sostiene che papa Francesco, subito dopo la sua elezione, non solo annullò le restrizioni imposte a McCarrick (affermazione, come abbiamo appena visto, priva di fondamento, perché queste restrizioni non c’erano mai state o almeno non erano state operanti), ma ne fece un suo consigliere per le nomine di vescovi in America. Anche se, commenta Tornielli, di questo «non adduce, almeno fino a questo momento, alcuna prova».
Invece racconta – e non c’è motivo di non credergli, trattandosi di un’esperienza diretta – che nel giugno 2013, pochi mesi dopo la sua elezione. Bergoglio, ricevendolo, gli chiese informazioni su McCarrick con quale non aveva potuto avere particolari rapporti diretti, anche perché questi, ormai ultraottantenne, non aveva partecipato al conclave. Alla domanda del papa Viganò riferisce di aver risposto che il cardinale aveva corrotto generazioni di seminaristi e di sacerdoti. Il discorso tra i due non aveva avuto alcun seguito.
Ma quando, nel 2018 arriva, per la prima volta, la notizia di un abuso su un minore commesso cinquant’anni prima da McCarrick, allora giovane prete, e questa accusa trova conferma in elementi raccolti nella diocesi di New York, papa Francesco, con una decisione che non ha precedenti nella storia recente della Chiesa, toglie la porpora e la berretta cardinalizia al prelato corrotto, che da quel momento non è più cardinale.
Questi i fatti enumerati nel dossier di mons. Viganò. Dove, agli occhi del lettore senza pregiudizi, emergono possibili responsabilità – anch’esse, peraltro, da dimostrare e precisare – del Vaticano al tempo di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, ma non a carico di papa Francesco, che invece è il solo bersaglio dell’accusa di corruzione, tanto da chiederne addirittura le dimissioni.
Mons. Viganò dice di aver fatto la sua pubblica denunzia per amore della verità e per combattere la corruzione nella Chiesa. Mi chiedo, francamente, se c’entri qualcosa, in questa sua mossa clamorosa, la sua non segreta appartenenza alla fronda che da anni, ormai, cerca di screditare in ogni modo il nostro papa con le accuse più svariate.
Per quello che mi riguarda, dopo aver preso conoscenza del contenuto del suo dossier, non mi sento più tentato di smarrimento, anzi sono più convinto che mai della necessità di sostenere Francesco nella sua difficile battaglia per il rinnovamento della Chiesa. E condivido il suo atteggiamento sereno quando, ai giornalisti che gli chiedevano un giudizio, ha risposto semplicemente: «Credo che il comunicato di Viganò parli da sé, e voi avete la maturità professionale per trarre le conclusioni». Anche io credo di avere questa maturità.