Mentre il “governo del cambiamento” comincia a misurare la verità dell’antico detto secondo cui «tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare», farebbero un grave errore i suoi critici se si limitassero a constatare con soddisfazione la fondatezza delle loro infauste previsioni. Qui c’è ben poco da stare allegri. In primo luogo perché le contraddizioni e gli smacchi dei vincitori delle elezioni del 4 marzo sono destinati a ripercuotersi disastrosamente sulle sorti, già problematiche, del nostro Paese. Ma anche perché, nella situazione che si è creata, a questo governo non c’è, a breve termine, alcuna alternativa plausibile, se non quella – che segnerebbe la classica caduta “dalla padella nella brace” –, di nuove elezioni, con la concreta prospettiva di avere Salvini presidente del Consiglio.
Perciò, se da un lato è giusto far sentire la propria voce per contestare la linea dell’attuale leadership e rilevarne le contraddizioni, il problema più urgente e decisivo sembra oggi quello di capire come sia stato possibile che la maggioranza, o comunque una parte consistente del popolo italiano, si sia schierata con forze politiche dichiaratamente populiste, abbandonando i partiti tradizionali e lasciando addirittura intravedere la loro prossima estinzione.
A questo “esame di coscienza” questi partiti non sembrano attualmente disposti. Né il PD né Forza Italia danno l’impressione di volere, ma anche forse di potere, rinnovarsi veramente per poter costituire un’alternativa valida. Il primo continua ad essere ostaggio di un gruppo dirigente diviso tra Renzi e i suoi oppositori, in una resa dei conti senza fine sulla questione di chi deve comandare. Alla fine resteranno così pochi che il problema si risolverà da sé. Il secondo rimane aggrappato alla mummia di Berlusconi, sapendo bene di essere ormai destinato ad affondare insieme al suo fondatore e padrone. In ogni caso, né nell’uno né nell’altro partito si vedono personalità emergenti in grado di coagulare nuove energie e di realizzare un salto di qualità rispetto al presente stato depressivo.
A questo punto, quali che siano i fallimenti a cui andrà incontro il nuovo governo, per chi diamine dovrebbero votare eventuali elettori delusi da Lega e 5stelle? Per Liberi e uguali, magari ancora “guidati” da Grasso?
Ci siamo lamentati, durante la Prima Repubblica, dell’alternanza imperfetta a cui il nostro Paese è stato condannato a lungo, negli anni del predominio democristiano, a cui comunque faceva da relativo contrappeso un forte partito comunista. Ci siamo lamentati, poi, nella Seconda, della fallimentare alternanza tra Ulivo e Casa delle libertà, entrambi incapaci di gestire efficacemente la cosa pubblica. Era, comunque, un’alternanza. La Terza Repubblica nasce, invece, senza che esista una forza politica alternativa a chi governa. È questo, più che le scelte di Salvini, che dovrebbe preoccupare tutti coloro che hanno letto Rousseau e sanno bene quanto possa essere totalitaria una democrazia diretta e senza opposizione.
La sola risposta – ma per ora velleitaria – a questo vicolo cieco, sarebbe la nascita di una o più nuove forze politiche. Ma, perché ciò possa essere anche solo pensabile, bisogna creare le condizioni di fondo perché esse siano veramente “nuove” e non si riducano a essere una semplice riedizione di quelle vecchie, dietro cui mascherare il ritorno sulla scena della classe politica trombata.
Ora, la prima di queste condizioni è che si profili una prospettiva culturale ed ideale che da tempo la politica italiana ha smarrito e che non è certo resuscitata con l’avvento del populismo. I partiti tradizionali da un pezzo non hanno idee né progetti a lungo termine. Hanno gestito – male – l’esistente. Ma del futuro, di un Paese “diverso”, non hanno più parlato da decenni. Quanto ai vincitori del 4 marzo, le idee non sono mai state, neanche prima delle elezioni, il loro forte. Salvini ha sempre puntato e punta sulla paura degli italiani, Di Maio sul loro risentimento verso la “casta” e sulla speranza di potersene dividere le spoglie, ma nessuna di queste due linee porta molto lontano.
Questo vuoto, peraltro, è una eredità della Seconda Repubblica. Dobbiamo alle Tv di Berlusconi e a spettacoli come il Grande Fratello, l’Isola dei Famosi o i programmi della De Filippi una desertificazione mentale che ha preparato l’elettorato della Terza Repubblica a ragionare con la pancia invece che col cervello. Né certo sono stati un’alternativa culturale gli intellettuali “di sinistra”, talmente assorbiti dai loro inesauribili dibattiti sui diritti individualistici dei borghesi da non essersi accorti che la nostra società aveva anche altri problemi – come i fatti hanno dimostrato.
Qui ci vuole un profondo rinnovamento culturale. Solo da esso può nascere una politica davvero alternativa, che non ricalchi le piste usurate del passato e non fugga nell’estemporanea improvvisazione di moda nel presente. Saremo capaci di realizzarlo? La risposta non è scritta nelle stelle, ma nell’impegno di quanti condivideranno questa prospettiva e vorranno impegnarsi a realizzarla.
Sarà necessaria un’opera a più mani, dove necessariamente dovranno convergere matrici spirituali e intellettuali diverse, da quelle cattoliche a quelle socialiste a quelle liberali – come fu per la nostra Costituzione –, con una forte ispirazione popolare, indispensabile alternativa al populismo (che ne è la parodia), ma con una forte attenzione ai valori dell’umano, che sono stati sistematicamente elusi sia dalla vecchia che dalla nuova politica (basta pensare a Salvini…).
Solo su questa base avrà senso aspirare a un cambiamento reale della situazione del nostro Paese attraverso la creazione di un’alternativa politica. È un’impresa ardua, ma forse ne vale la pena. Se non altro per potere, un giorno non troppo lontano, avere un partito per cui votare senza turarsi il naso.