Nella ridda di notizie che ci parlano in questi giorni di un mondo confuso e contraddittorio, rischia di passare del tutto inosservata quella riguardante un numero sempre maggiore di piloti tedeschi che si rifiutano di eseguire l’ordine del loro governo di rimpatriare forzatamente i profughi provenienti dall’Afghanistan.
La loro motivazione è semplice: la tesi governativa, secondo cui questo paese sarebbe ormai “sicuro” – e non sussisterebbe, perciò, il diritto d’asilo per coloro che ne sono fuggiti –, è una evidente ipocrisia, imposta dalla pressione dell’opinione pubblica, sempre più influenzata dai movimenti populisti xenofobi. Per averne la prova non sono necessari gli allarmi lanciati da Amnesty: basta visitare il sito del ministero degli Esteri, dove ai tedeschi viene caldamente sconsigliato di visitare quel paese. In queste condizioni, rispedire in patria coloro che ne erano fuggiti significa esporli a un chiaro pericolo di morte.
Così, solo quest’anno, da gennaio a settembre, ben 222 comandanti d’aereo si sono rifiutati di eseguire l’ordine di rimpatrio. In passato – tra gennaio 2015 e giugno 2016 – i piloti che si erano rifiutati di dare corso ai fogli di via erano stati già 160. I numeri del 2017 dimostrano che il fenomeno è in crescita. A opporsi sono stati soprattutto i comandanti della Lufthansa (in 63 casi) e delle due compagnie low cost ad essa legate Eurowings e Germanwings (con 37 espulsioni bloccate). La maggior parte dei respingimenti falliti era in programma proprio dall’areoporto di Francoforte (107). E poi da Düsseldorf (40) e Amburgo (32).
Giuridicamente, il pilota non può opporsi a un’espulsione, ma può decidere di far scendere un passeggero, qualunque passeggero, se ritiene che possa costituire un pericolo per la sicurezza del volo. E questa decisione è insindacabile. Quando l’aereo sarebbe tutto destinato a passeggeri che, a giudizio del comandante, si trovano in questa condizione, il volo viene cancellato.
Non solo i piloti, ma anche membri di altre categorie si sono mobilitati per evitare ai migranti il destino infausto che probabilmente li attende. Da mesi i giornali tedeschi riportano notizie di un’ondata di solidarietà che starebbe spingendo moltissimi medici ad aiutare i profughi espulsi, attestando loro l’impossibilità di viaggiare per malattie varie.
Sono gesti individuali, che non si collocano all’interno di movimenti organizzati e meno che mai di linee di partito, ma che semplicemente esprimono il coraggio civile, da parte di alcune persone, di non partecipare ad azioni ritenute ingiuste.
Dicevo prima che la notizia non è di quelle che appaiono sulle prime pagine dei quotidiani, dedicate alle ordinarie follie che provengono dal mondo della politica internazionale e nazionale: i venti di guerra nucleare che incombono sull’umanità intera (ormai le guerre locali non esistono più) a causa della crescente tensione tra Corea del Nord e Stati Uniti; la scelta di Trump che, dopo aver assunto fino a ieri il ruolo di mediatore tra mondo arabo e Israele, ha deciso, con un improvviso voltafaccia, di riconoscere Gerusalemme come capitale dello Stato Israeliano, mettendo così una pietra tombale su ogni futura possibilità di accordo; per quanto riguarda l’Italia, la decisione del Senato di mettere in primo piano, nei suoi lavori, il diritto di alcuni di morire, rispetto a quello di tantissimi che chiedono solo di vivere, accelerando l’esame della legge sul testamento biologico e accantonando la questione dello jus soli…
Ciò che colpisce e atterrisce, in questi scenari, è l’impossibilità di individuare Stati o forze politiche organizzate di cui condividere la linea e da assumere come punto di riferimento. Gli Stati Uniti di Trump sono un disastro, ma lo sono anche la Russia di Putin e gli altri protagonisti della scena internazionale (Corea del Nord, Cina, Unione Europea, Inghilterra…). E, nel nostro paese, quelli che si battono contro il movimento pro-eutanasia (la legge sul testamento biologico è, per ammissione degli stessi suoi sostenitori, solo una tappa in questa direzione) sono gli stessi che vorrebbero lasciare affogare i migranti, da loro considerati come degli invasori.
All’interno della stessa Chiesa, capita sempre più spesso di trovarsi di fronte ad opposte estremizzazioni in cui è impossibile riconoscersi. Da una parte ci sono quelli che si potrebbero definire “talebani conservatori”, attaccati furiosamente alla lettera dei documenti passati del magistero e incapaci di capire che la vita della Chiesa è un processo, guidato dallo Spirito e volto a far emergere dal Vangelo «cose antiche e cose nuove», per rispondere agli interrogativi che le diverse epoche gli pongono. Dall’altra parte si incontrano a volte dei “talebani progressisti”, che, con altrettanta intolleranza e aggressività strumentalizzano il messaggio di papa Francesco per sostenere le loro discutibili tesi. In entrambi i casi dimenticando che la tradizione non è il passato (quello è archeologia!), e neppure l’adeguarsi al presente o l’anticipare il futuro, ma la capacità di tenere insieme queste tre dimensioni del tempo in una delicata relazione di continuità e discontinuità.
Forse dobbiamo prendere atto che la post-modernità ha reso precarie le appartenenze e impossibili le identificazioni. Resta a ciascuno la possibilità di cercare di capire cosa è vero e giusto (perché, contrariamente a quanto suggerisce il dominante relativismo, ci sono cose vere e cose false, cose giuste e cose ingiuste) e di comportarsi di conseguenza, anche rischiando. I piloti tedeschi, con la loro scelta coraggiosa, ci dicono che forse, in questo mondo caotico, non dobbiamo rinunciare a lottare solo perché non c’è più un esercito preciso in cui militare. Dalla loro testimonianza, e da quella di tanti altri, è possibile ancora veder affiorare, in un contesto in cui non ci sono più linee di confine chiare e nette, frammenti di umanità – solo frammenti – da salvare, nelle nostre scelte concrete di ogni giorno, per andare ancora avanti senza perdere la speranza.