L’Arcivescovo apre le porte di casa sua Incontro di fraternità con i Rappresentanti delle Religioni

Palazzo Arcivescovile – Salone Lavitrano
11-07-2024

Giovedì 11 luglio 2024

Anno Giubilare Rosaliano

 

Care Amiche, Cari Amici, Buongiorno!

Benvenuti qui, in questa ‘casa comune’, ancora una volta! Vorrei abbracciarvi e rivolgervi il mio saluto affettuoso, in un giorno divenuto per noi tradizionale. È il giorno in cui Palermo adempie ogni anno, nella maniera simbolicamente più alta, la sua vocazione di ‘porto delle genti’, di città dell’accoglienza e del dialogo. Un simbolo, certo. Ma un simbolo che deve irradiare la sua luce, la sua forza, su tutto il tempo e su tutta la vita della nostra Città. Perché un simbolo è un puro segno, spesso piccolo, debole, e può essere ridotto a ‘nulla’. Ma se del segno, del simbolo, si fa memoria, esso penetra nel tessuto dell’esistenza, la nutre, la fa crescere, agisce in profondità. È così che il seme del simbolo può portare frutto. E noi siamo qui oggi, come espressione viva di racconti, di storie e di fedi, riuniti assieme in qualità di portatori del simbolo (come symbolonphoroi).

Siamo persone diverse, che stanno assieme quali pellegrini di questo ‘nulla’ che è ‘tutto’, di questa debolezza assoluta che è la vera forza. Ed è la nostra diversità il vero correlato simbolico, il significato primo e ultimo del nostro convenire. In un tempo in cui in Europa e nel mondo – nella Casa comune –  sembrano prevalere la chiusura, il rifiuto dell’altro, la violenza contro gli inermi; in un tempo in cui la cieca ideologia del nemico sembra guidare le scelte politiche fino all’innalzamento di muri e alla teorizzazione dei respingimenti; in un tempo in cui la distruzione dell’altro non si ferma nemmeno di fronte alle case, agli ospedali, ai luoghi di culto e di festa, in nome di un nazionalismo cieco, in nome di una difesa assurda del proprio presunto diritto o del proprio scandaloso benessere, noi siamo qui stamattina: piccoli, poveri, insignificanti, col nostro frammento di verità e di bene (questo è il simbolo!), ma grandi della grandezza della speranza. Siamo qui stamattina, provati dall’odio del mondo e dal contributo che le nostre religioni danno, in questo stesso mondo – dobbiamo riconoscerlo! – al conflitto mortale invece che alla distensione e alla pace. Siamo qui, messi in questione dai nostri simboli, dal messaggio autentico delle nostre fedi, chiamati a rispondere per noi e per i nostri compagni di fede. Siamo qui: piegati, addolorati, ma non sconfitti. Logorati ma non vinti (cfr 2Cor 4,8).

Ci ritroviamo stamattina per innalzare il vessillo della diversità come benedizione, come preziosa risorsa. Per dire che la convivenza è possibile, che l’inimicizia non è scritta nel DNA della storia, che la guerra non è il destino del mondo. Lo diciamo sommessamente nella preghiera che ci unisce in quanto anelito, in quanto sospiro dell’umano levato verso l’altro, verso l’oltre, in tutte le lingue e in tutti i modi possibili. Ma lo gridiamo anche, in questa ‘casa delle genti’, così come nella piazza di Palermo (simbolo di ogni piazza del mondo), perché non possiamo rassegnarci a una Terra violentata dalla perversa logica economica della massimizzazione del profitto, divisa e ferita dall’ingiustizia e dal sopruso, in cui i poveri, i piccoli vengono calpestati, annientati, trattati da escrementi della storia da parte di chi non sa che il loro esserci è il fango, l’adamà della vita.

Conveniamo qui con i simboli delle nostre fedi in un anno speciale per Palermo, quello in cui si conclude l’Anno Giubilare Rosaliano, a quattrocento anni dal ritrovamento del corpo della nostra Santuzza da parte di una donna del popolo, Girolama La Gattuta. Girolama trova il corpo di una donna che sarà la salvezza di Palermo dalla peste. È molto bello che stamattina ci ritroviamo per ricordare assieme questa scena così emozionante, quattrocento anni dopo.

È Girolama, è una donna a essere scelta per riportare a Palermo il corpo di Rosalia. È un dato su cui riflettere. In una società come quella del XVII secolo, in un contesto storico in cui nulla era concesso alle donne del popolo, Rosalia ha scelto una donna come Girolama, in qualità di ‘apostola’ della sua memoria e della sua carne, così come Gesù di Nazareth scelse in quel mattino di Pasqua di farsi incontrare e annunciare dai soggetti meno credibili e considerati nella tradizione culturale del suo tempo: un manipolo di povere donne intrepide e amanti. Si parla tanto oggi della questione femminile, del divario di genere, della violenza sulle donne, piaghe di un mondo che fatica a riconoscere i nuovi soggetti, a fare spazio a chi non ne ha o non ne ha mai avuto. In questo contesto, il rinvenimento di Girolama ha il valore di una profezia. Il cammino di manifestazione della potenza e della bellezza del femminile è iniziato, nel racconto del Vangelo di cui oggi io sono testimone in mezzo a voi, [è iniziato] il mattino di Pasqua, si è rinnovato ogni volta che una donna ha offerto la propria testimonianza viva dell’euanghelion fino alla morte, ha attraversato popoli e culture. È stato il cammino di Sarah e di Rachele, di Ester e di Ruth, di Maria di Nazareth e di Maria di Magdala, di Mahapajapati Gotami e di Fatima al-Fihri, di Caterina da Siena e di Ildegarda di Bingen, di Rosalia Sinibaldi e Sarada Devi, di Etty Hillesum e di Nadia Murab [Nobel per la pace 2018, curda irachena di etnia yazida, predata dall’Isis, ora ambasciatrice ONU per la dignità dei sopravvissuti alla tratta di esseri umani].

Un cammino di salvezza. Perché il corpo di Rosalia è la sorgente viva della liberazione di Palermo dalla peste. Questo corpo ridonato a Palermo grazie a Girolama ci dice che abbiamo bisogno delle donne. Nelle nostre comunità, nelle nostre religioni, nel nostro mondo di oggi. Abbiamo bisogno della loro sensibilità per la vita, della loro tenerezza per i piccoli, delle loro fiducia nel futuro, scritta nell’evento della generazione dei figli. Abbiamo bisogno del corpo delle donne per rimettere in equilibrio lo squilibrio planetario, per ridare fiato alle fedi, per mettere fine alle crudeltà, alle stragi, allo sterminio dei bambini, in nome di una resistente, indomabile difesa della vita. Contro la peste e contro tutte le pesti la differenza del femminile ci interpella e ci dà speranza. Le mafie, che fanno affari sui figli di Palermo e del mondo commerciando droghe che cancellano personalità e voglia di vivere; la politica, che fa della guerra lo strumento del suo agire; l’economia, che sceglie l’oppressione dei poveri e la distruzione del pianeta in nome del profitto; le religioni, che giustificano e magari propagandano il sopruso e la violenza; le società civili, che si girano dall’altra parte e preferiscono il quieto vivere alla lotta per il cambiamento: sono alcune delle pestilenze di oggi che il corpo di Rosalia viene a guarire, indicando la via della delicatezza, della gentilezza, della cura, della dedizione e del servizio.

In una parola: indicando la via dell’amore. Nel Suo messaggio alla Chiesa di Palermo in occasione dell’Anno Giubilare Rosaliano, Papa Francesco ha voluto mettere al centro del suo discorso proprio il ‘motto’ della Santuzza: Amore Domini mei, ovvero ‘per amore del mio Dio’. «È il motivo che Santa Rosalia adduce consegnando la propria esistenza e abbandonando la ricchezza del mondo», dice il Papa. Amare significa consegnarsi. Uscire da sé stessi in un esodo imprevisto e incredibile, che ci proietta al di là di noi e ci fa credere nella vita, nel suo durare, nella sua forza, al di là dei confini della nostra personale esistenza e del nostro immediato essere alla vita. Rosalia si è consegnata, decidendo «nel suo cuore di fare spazio all’amore per donarlo agli altri, per sacrificarlo a favore del fratello, per condividerlo con quanti non lo hanno sperimentato a causa delle “pesti” che affliggono l’umanità».

Vorrei che raccogliessimo stamattina l’invito di Papa Francesco e che lo sentissimo rivolto a tutti noi. Siamo di fronte a una scelta epocale. Il Giubileo di Rosalia ce la mette davanti. I giorni che verranno potranno essere giorni di grazia, in cui fasciare le piaghe dei cuori spezzati, proclamare la libertà degli schiavi, consolare tutti gli afflitti (cfr Is 61,1) annunziare la gioia dell’alba di un mondo nuovo. Per farlo però dobbiamo avere il coraggio di abitare nella notte e di stare accanto alla sentinella di Isaia, chiedendole incessantemente, tutti insieme: «Sentinella, quanto resta della notte?» (cfr Is 21,11). Dobbiamo ripetere all’infinito la nostra domanda, affiancando i disperati, i senza luce, tutti coloro che in carcere o sulla strada, nelle miniere del Congo o nelle fabbriche del Bangladesh, gridano senza voce il loro desiderio di vita e di liberazione. Dobbiamo levare noi la nostra voce, per tutti i dimenticati, per quelli che restano all’ombra del dolore: nella nostra Palermo, in Italia, nel mondo. Rosalia ci annuncia oggi che la parola in cui è racchiusa la speranza non è l’odio ma l’amore. «Ego Rosalia Sinibaldi quisquinae et rosarum domini filia amore Domini mei Iesu Christi in hoc antro habitari decrevi».

È in questa iscrizione all’ingresso della sua grotta alla Quisquina che Rosalia ci lascia il suo messaggio giubilare, dicendoci che ci si può identificare nell’amore. Che si può dire ‘io’ dentro un ‘noi’. Riconoscere l’io non è il principio della separazione e del conflitto, ma lo spazio del ‘noi’ nella cui trama consegnare l’esistenza e l’impegno di vita.  Ma la nostra Santa Rosalia ci ricorda che questo è possibile quando si abita soli nella grotta, quando si ha il coraggio del ritiro e del silenzio, dell’ascolto di sé e dell’altro.  L’habitare secum è lo spazio sacro dell’interiorità e di ogni anelito religioso.

Sia questa casa in cui oggi conveniamo, la nostra grotta, il nostro antro. Sia il luogo in cui impariamo insieme nel silenzio, a ritrovare noi stessi e gli altri, a far germinare dal nostro stare assieme, dal nostro conversare e pregare assieme la forza e il senso di un amore umile e autentico, fecondo e liberante che è il segreto di ogni pienezza. Di oggi e di domani. Ancora ‘benvenuti’ a ognuna, a ognuno, a tutte e a tutti! «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama» (Lc 2,14).