Venerdì Santo
Passione del Signore
7 aprile 2023
Omelia
L’obbrobrio e l’ignominia della Croce è insostenibile ed insopportabile. Per chi vi è appeso e per chi la deve vedere. È l’ostensorio dello strapotere del male. Del mondo sottomesso agli empi e al suo unico vero principe. È il focus dell’inequità (Francesco) e dell’iniquità del mondo. Dell’abuso massimo dei corpi, della vita di un essere umano. È il manifesto dell’ateismo. Proclama non solo la morte degli uomini ma, soprattutto, quella di Dio. La sua assenza. Attesta che Dio non esiste, non è mai esistito. Quel crocifisso del Golgota e i crocifissi di ogni tempo (quelli di Auschwitz e quelli che vengono respinti e internati nei Lager libici, che galleggiano o sprofondano nel Mediterraneo, quelli che sono intubati nelle terapie intensive dei nostri ospedali o abbandonati nelle nostre case sulla croce della solitudine o sul supplizio dell’indifferenza nei marciapiedi delle nostre città) gridano l’abbandono di Dio. Che anche la sola idea di Dio deve essere abbandona. Cancellata.
La Croce va solamente rimossa. Eliminata. Bestemmiata. Altro che contemplata, tanto meno adorata. La Croce è scandalo e follia (cfr 1Cor 1,23).
Eppure la Croce di Cristo rimane al centro del paradosso della fede cristiana. Oggi siamo venuti qui ad adorare Dio riconosciuto nel maledetto del Golgota e nei crocifissi del mondo di ogni luogo e di ogni tempo. Il Crocifisso lo abbiamo sempre con noi, nei tanti volti dei crocifissi, degli scarti umani prodotti dal principio di vita che tutti respiriamo: il singolarismo autolatrico e l’indifferenza, generati dalla perversa logica dell’economia del profitto.
“I crocifissi sono sempre con voi”, se vogliamo parafrasare il Vangelo (cfr Gv 12,8). I poveri cristi sono e saranno sotto i nostri occhi anche quando li evitiamo al nostro passaggio o li colpevolizziamo per narcotizzare e mettere a tacere le nostre coscienze.
I crocifissi di oggi ci dicono invece che Dio esiste. E vuole essere riconosciuto e amato. È nel crocifisso che muore sul Golgota che il centurione, un pagano, riconosce il Figlio di Dio (cfr Mt 27,54). Egli si è identificato e continua a identificarsi in essi. Si annienta in loro prendendo su di sé la loro condizione. Divenendo uno di essi. Egli è in ogni crocifisso. I crocifissi di questo nostro tempo sono Cristo, come ci ha ricordato Papa Francesco domenica scorsa, proprio all’inizio di questa Settimana Santa. In essi il Figlio di Dio si umilia fino allo svuotamento totale della sua onnipotenza.
La croce è la narrazione dell’esistenza di Dio, della passione divina per noi uomini, per ogni donna e ogni uomo, di ogni angolo della terra e di ogni tempo. È il segno dell’ostinazione dell’ec-stasi d’amore di Dio per noi sue povere creature. Della sua onnipotente condivisione della nostra condizione umana, terrena. Umani, tratti dall’humus, terreni. La lettera agli Ebrei ci ha ricordato il mistero dell’incarnazione, che Gesù è il Figlio di Dio che ha preso “parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato” (Eb 4,15). E Isaia, ripreso dagli evangelisti, arriva a dire, [che prende parte] fino a non riconoscerlo neanche nella forma di uomo, “tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo” (Is 52,14). Gesù è il Servo di Dio di cui parla Isaia, che “si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori” (Is 53,4).
Nell’Uomo della Croce contempliamo “l’appartenenza di ogni essere umano all’amore del Padre nel Figlio” (G. Ferro Garel, Al di fuori di sé, 126). Siamo qui per contemplare Dio e il suo amore. Sulla croce si rivela Dio e contempliamo la sua Verità: l’Amore crocifisso. L’Amore che vuole essere amato. Che non vuole essere abbandonato né dal Padre né dagli uomini suoi fratelli.
Stamattina mi è arrivato questo messaggio da un amico che va a cercare crocifissi lungo le rotte del Mediterraneo trasformatosi in cimitero: “Oggi il Vangelo ci racconta di come lo [Gesù] prendano, lo colpiscano, lo umilino. E tutti coloro che prima si stupivano per le cose che faceva, ora tifano per la sua messa a morte. Il male è come petrolio sul mare: si espande rapidamente, si mescola in superfice e sembra inarrestabile. Il bene invece va in profondità, non resta in superfice. Si deposita sul fondo, lì dove sono le radici, in modo che qualcosa di nuovo possa nascere. È nella sua calma [di Gesù] di oggi, quella con cui va incontro alle umiliazioni, alla solitudine e all’orrore e al dolore immenso, che riconosciamo questo bene, che va in basso, fino in fondo, per morire, per rinascere”.
In questo Venerdì Santo, partecipando a questa liturgia, noi tutti riscegliamo di stare con Colui che è “Eccesso d’Amore” e che vuole essere riconosciuto in quanti gridano dagli inferi, dalle macerie generate dal nostro egoismo idolatra e dagli iniqui poteri forti di questo mondo. Non ci possiamo chiudere in noi stessi. Adorare la croce significa uscire da noi stessi, incamminarsi verso l’Altro e alzare il proprio sguardo all’altezza dello sguardo dell’altro. Questo è il senso più profondo della nostra identità umana e cristiana. Non andare verso l’altro, non amare, significa mortificare il nostro stesso essere, uomini e donne cristiani. “Chi non ama rimane nella morte” (1Gv 3,14). Sotto la croce di Gesù ogni maceria umana viene attratta e assunta da Dio. La croce è il cuore di Dio che si squarcia sul dolore del mondo. Chi segue Gesù fin sotto la croce, come la Madre, le donne e il discepolo amato, impara a vedere e a sentire il mondo con le viscere di Dio, “si apre al dolore del mondo, trasformandosi in luogo di calore per tutti e con tutti” (G. Ferro Garel, Al di fuori di sé, 126). Contemplare la croce, venerarla, genera estasi, ci spinge fuori da noi, fa uscire da sé stessi, verso l’altro. Ci fa riconoscere il Crocifisso nei crocifissi che incontriamo quotidianamente, vicini o lontani.
“E ora ti prego, Madre del dolore e fonte dell’amore.
Tu che non cessi di sperare in Dio nonostante la sua apparente assenza, tu che in Gesù non ti stanchi di amarci, custodiscici nel silenzio dell’attesa. Nel venerdì e nel sabato santo tu sei l’icona della Chiesa, sostenuta dalla fede più forte della morte e viva nella carità che supera ogni abbandono. Ottienici, o Maria, quella consolazione profonda che ci permette di amare anche nella notte della fede e della speranza, anche quando ci sembra di non vedere neppure più il volto del fratello! E aiutaci, adesso, ad adorare la croce del tuo Figlio. Amen (C. M. martini, Omelia, Venerdì Santo 2002).