(di Fernanda Di Monte / Avvenire) 50 anni fa moriva il fondatore della Famiglia Paolina. Proclamato beato nel 2003 da Giovanni Paolo II, diede un impulso decisivo all’uso dei media come strumenti per portare Cristo a tutti.
L’esodo di don Giacomo Alberione alla casa del Padre avvenne alle soglie dei tragici anni 70, gli anni di “Evangelizzazione e sacramenti” di “Evangelizzazione e promozione umana”; gli anni in cui la Chiesa, nel suo decollo verso il 2000, avverte quanto fragile e precaria è la condizione umana, e come per fondare e radicare la speranza sia necessaria la sovrabbondante ricchezza della divina misericordia. Fu quella l’ultima tappa di un laborioso e incessante cammino nel Cristo via, verità e vita. Lasciò questo mondo sapendo che tutto confluiva in un solo mare… «Considerando la piccola Famiglia Paolina – scriveva nella sua autobiografia – si potrebbe paragonarla a un corso d’acqua, che mentre procede si ingrossa, per la pioggia, per lo sgelo dei ghiacciai, per varie e piccole sorgenti. Le acque così raccolte e incanalate per la irrigazione di fertili pianure e produzione di energia, calore e luce, attendono che di nuovo i canali si riuniscano nel mare di una felicità eterna in Dio». Definizione profonda delle realtà carismatiche nate da «questo inesausto sognatore ai piedi del tabernacolo», come lo definì mons. Luciano Gherardi, liturgista e poeta bolognese. Di lì, dal tabernacolo, è scaturita la sua opera di patriarca e di uomo dell’era tecnologica. Come patriarca, restò il contadino del suo estremo lembo di Piemonte, come uomo dell’era tecnologica avanzata, fu per nulla provinciale, diplomatico e audace, proteso verso un sempre nuovo domani. Questo piccolo, esile cuneese fu perennemente incalzato come Abramo, dalla volontà del Dio degli eserciti, che non aveva provocato ma “piuttosto assecondato e quasi subìto”. E così implicitamente rivela a sé stesso e a noi il punto più alto dell’esperienza del mistero: “Il pati Deum”, il subire Dio. Un’ora prima della morte, avvenuta il 26 novembre 1971, Paolo VI, scrisse nel registro aperto sulla scrivania di don Alberione: «In nomine Domini. Paulus Papa VI». Si può dire che fosse il passaporto per la Patria del cielo. Era il riconoscimento che papa Montini, amico ed estimatore del sacerdote Alberione, dava di lui e della sua opera. Tanto che alcuni anni prima, il 26 aprile 1969, in una udienza alla sua Famiglia, papa Paolo, descrive don Alberione con parole che segneranno per sempre, i suoi figli e figlie sparse nel mondo intero.
«Umile, silenzioso, instancabile, sempre vigile, raccolto nei suoi pensieri che corrono dalla preghiera all’opera (secondo la formula “Ora et labora”) intento ad ascoltare i “segni dei tempi” e cioè le più geniali forme di arrivare alle anime». Così Paolo VI disegnò la figura di don Alberione, e pose in evidenza, al di là delle contingenze storiche, i due fattori fondamentali della straordinaria sinergia di questo discepolo dell’apostolo Paolo.
Disse di lui Paolo VI: ha dato alla Chiesa nuovi strumenti per esprimersi, nuovi mezzi per l’apostolato, nuova capacità e coscienza della sua missione nel mondo moderno e con i mezzi moderni
«Due volontà, quella di un uomo e quella di Dio; quella di un umile servitore e quella prodiga e paterna di Dio». L’amore di don Alberione per il successore di Pietro era un sentimento tenero e profondo. E lo fu, in modo speciale per colui che portava lo stesso nome dell’apostolo e che incarnava i tre grandi amori di don Alberione: Gesù Maestro, Maria Regina degli apostoli e Paolo, apostolo delle genti. Di sé don Alberione ha scritto poco e quel poco su sollecitudine dei suoi primi figli e figlie. Tutto, possiamo dire, è sintetizzato nelle tre frasi poste vicino al tabernacolo di ogni cappella paolina del mondo: “Da qui voglio illuminare”, “Non abbiate paura, io sono con voi” e “Abbiate il dolore dei peccati”. Era un uomo silenzioso. Scriveva con una grafia minuta e tremolante…Ma la voce di Paolo risuona e splende nella sua vita. Così scriveva all’età di 53 anni, ricordando quella notte speciale: «La notte che divise il secolo scorso dal corrente fu decisiva… Si fece l’adorazione in duomo ad Alba, dopo la messa di mezzanotte, innanzi a Gesù esposto. I seminaristi avevano la libertà di fermarsi quanto volevano… Avevo letto un invito di Leone XIII a pregare per il secolo che cominciava … Parlava della necessità della Chiesa, dei nuovi mezzi
del male, del dovere di opporre stampa a stampa, organizzazione a organizzazione, di far penetrare il Vangelo nelle masse, delle questioni sociali… Una particolare luce venne dall’Ostia… Si sentì obbligato a prepararsi a fare qualcosa per il Signore e per gli uomini del nuovo secolo». Da quella preghiera notturna, durata quattro ore, nacque il progetto “alberioniano” … In Gesù Maestro la realtà si apre: “Tutto è vostro…il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro; tutto è vostro. Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio” (1 Cor 3, 22-23). Tutto quanto verrà realizzato nel campo dei mezzi della comunicazione sociale ha qui la sua ragion d’essere. Egli ci ha insegnato che, se deve pregare il contemplativo, deve essere uomo di orazione anche e soprattutto l’apostolo dei mass media. La Chiesa col Concilio Vaticano II, con il decreto Inter mirifica, datato 4 dicembre 1963, si espresse sull’importanza dei mezzi di comunicazione sociale e alcuni anni dopo, nel 1971, ne richiamò l’attenzione con l’istruzione pastorale Communio et progressio con la quale si correggevano e completavano le lacune del decreto Inter mirifica che nonostante tutto servì a far scoprire la presenza dei media nell’ambito delle inquietudini pastorali della Chiesa, e ammise l’influenza della comunicazione sulla grande massa sociale della nostra epoca. Ben 50 anni prima, la figura che meglio capì e contribuì all’apertura, al consolidamento della realtà mass mediale e del suo utilizzo per l’evangelizzazione fu certamente don Giacomo Alberione (1884-1971), beatificato il 27 aprile 2003, da Giovanni Paolo II che lo definì «strumento di elezione per portare il nome di Gesù dinanzi ai popoli». Ma il ritratto più pregnante e emblematico, come abbiamo accennato all’inizio, del beato Don Alberione fu espresso da Paolo VI: «(…) il nostro don Alberione ha dato alla Chiesa nuovi strumenti per esprimersi, nuovi mezzi per dare vigore ed ampiezza al suo apostolato, nuova capacità e nuova coscienza della validità e della possibilità della sua missione nel mondo moderno e con i mezzi moderni».